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A tu per tu con Riccardo Pippa

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Mi incuriosisce  innanzitutto il nome che avete scelto per la vostra compagnia, puoi raccontare qualcosa su questo?

Ci siamo conosciuti tutti alla “Grassi” di Milano. “Gordi” è una parola inventata, che richiama lo spagnolo “gordo” che vuol dire appunto grasso. Così è nata. Poi abbiamo visto che poteva richiamare anche altro, ad esempio el billete gordo è il biglietto vincente… Gurdus in latino si usa per un terreno fertile… Ma queste sono scoperte successive, il nome è nato senza troppi ragionamenti.

Cosa vi ha spinto  ha creare una compagnia, soprattutto in un periodo storico così difficile per il nostro mondo culturale e teatrale in particolare?

A monte, per ognuno di noi, c’è stata la decisione di studiare in un’accademia di teatro e questa la fai da giovane ed è un passo molto importante. Poi c’è la vita in classe, la condivisione di esperienze molto forti, i legami che la pratica teatrale e l’amicizia creano… Sono scelte di cuore alla fine dei conti e se uno mettesse in fila, in modo ragionato, le possibili conseguenze, non le farebbe mai.
Sicuramente le avventure teatrali che abbiamo condiviso poi come Gordi e l’incontro col pubblico e i teatri, i bandi e le richieste di collaborazione ci hanno incoraggiato a proseguire.

Mi ha incuriosito  la vostra performance a Londra il maggio scorso. Praticamente avete tenuto banco senza dialoghi parlati, giusto? Trovo veramente interessante  questa modalità di recitazione che mi ricorda, correggimi se sbaglio, il primo cinema muto?

Il cinema muto, se parliamo del primo cinema, ha una qualità gestuale che cerca di sopperire all’assenza della parola, che in quel caso non è una scelta linguistica, ma un limite tecnico. Noi in quello spettacolo avevamo scelto delle situazioni che non presupponevano la parola e il gesto aveva una sua qualità intrinseca e una sua asciuttezza. Le didascalie aggiungono nel nostro caso delle suggestioni poetiche, ma in qualche piazza abbiamo replicato anche senza e lo spettacolo si comprende ugualmente.

Voi utilizzate  spesso delle maschere in cartapesta, tra l’altro stupende,
è una scelta registica particolare o è  un ritorno alle maschere tragiche greche?

Le abbiamo usate in due spettacoli, in Sulla morte senza esagerare per avere la possibilità di rappresentare una morte col teschio, quindi familiare, riconoscibile, quasi tenera, poi per permettere a quattro attori di far vivere undici figure e infine per usare la compresenza di attori con la maschera e attori senza maschera per raccontare il trapasso. In Visite ci sono delle maschere di anziani in una lungodegenza e nella compresenza di attori con la maschera e attori senza c’è la fusione di passato e presente nella testa di una donna malata. In Pandora dove si vede varia umanità che passa da un cesso pubblico, quasi non ci sono maschere se non in pochissimi passaggi e sono maschere ready-made (ad esempio un impiegato mobilizzato a cui hanno messo dello scotch in faccia, un cuoco che in un momento di frustrazione si butta della panna addosso…), Tutti questo per dire che le maschere non sono una scelta stilistica a monte ma nascono dall’esigenza di raccontare determinate situazioni ed esperienze.

Siete tutt* giovani, questo vi aiuta? Crea un clima goliardico?

Non siamo più così giovani, ma quell’attitudine allo scherzo sicuramente ce la portiamo sempre dietro. E’ molto faticoso lavorare su drammaturgie originali ed è economicamente difficile difendere un’idea corale di lavoro, quindi senza le risate non ne varrebbe davvero la pena. L’ironia poi rompe le tensioni nelle crisi creative e blocca sul nascere i vari narcisismi.

Pensate in futuro di aprire il vostro repertorio a qualche classico? C’è qualche autore contemporaneo che vi interessa?  

Io penso ad esempio al grande Giovanni Testori, un gigante della drammaturgia contemporanea, milanese come voi.
Non lo escluderei, ma visti i progetti attuali di certo non succederà in un futuro prossimo… Testori non credo sia proprio nelle corde della nostra compagnia. Durante le prove condividiamo generalmente testi non teatrali, più facilmente classici, proprio per la loro distanza temporale e linguistica. Sono spunti, suggestioni, non sono mai direttamente riconoscibili negli esiti del nostro lavoro. Ad esempio, per il nuovo progetto, che al momento s’intitola Note a margine, tra le altre cose, stiamo leggendo un racconto di Pirandello, I pensionati della memoria.

Ho  visto  che vi dedicate anche a spettacoli per i più giovani, avete in programma qualcosa di particolare?

È successo una sola volta, agli inizi della compagnia. Io personalmente non facevo ancora parte dei Gordi, ma so che era un lavoro sul Grande Gigante Gentile che è stato poi abbandonato perché Spielberg aveva preso i diritti. Non ci dedichiamo più al teatro ragazzi, ma capita ancora di condurre laboratori nelle scuole.

Milano  è una città  ricca dal punto di vista culturale, certamente è la città più avanzata nel panorama teatrale, questo vi ha aiutato? So che non avete una sede,ma collaborate col Franco Parenti,questo è un fatto positivo o negativo?

A Milano abbiamo studiato, ci siamo conosciuti, abbiamo visto la maggior parte degli spettacoli, a Milano abbiamo debuttato e, dal 2017, collaboriamo col Teatro Franco Parenti che sta investendo per promuovere il nostro lavoro anche all’estero. Direi che il bilancio è ben più che positivo. La gestione di una sede per noi in questo momento rischierebbe di assorbire il tempo che ognuno di noi riesce a ricavarsi per i Gordi e che dedichiamo più volentieri alle prove.

Chiudendo, cosa consiglieresti ad un giovane che volesse ,oggi, intraprendere la carriera teatrale? Soprattutto in un mondo dove conta solo l’apparenza e invece lo studio è il sacrificio non sono di moda?

Di mettere sempre al centro della propria vita la ricerca umana e l’incontro in presenza.

Stefano Ceniti

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