Thomas Bernhard inaugura la stagione di Prosa del Teatro Fraschini di Pavia

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Al Teatro Fraschini di Pavia

Antichi maestri è l’intelligente copione che Fabrizio Sinisi trae dal romanzo Alte Meister di Thomas Bernhard; scritto nel 1985 dal disincantato scrittore austriaco, nel carsico sottendere di spietata percezione dell’esser umano, ne trae un lucido e geometrico studio sulla funzione dell’arte figurativa. Sembra di assistere a una livida quanto all’apparenza placida “seduta psicanalista” al cui lettino si sostituiscono i divanetti di una sala del Kunsthistorisches Museum di Vienna. Qui una serrata circuitante triangolazione s’instaura tra un uomo, Reger, che da molti anni si dà appuntamento alla sala Bordone con L’uomo dalla barba bianca del Tintoretto, e Atzbacher che raccoglie e rimanda le sue considerazioni. Entrambi, a loro volta, guardati dal custode Irrsigler, moderno fool che riempie la scena di partecipi movimenti a riflettere e specchiare la tensione. In primo piano, nella sala Bordone, il quadro del pittore veneto contornato da altri, che sono invece copie al “negativo” fotografico. Bernhard, in questo incontro museale, descrizione-ritratto della disperazione e depressione, esaspera la nevrosi comportata dalla modernità, sovrapposta a straziante angoscia per la solitudine, riassunta in Quel solo e unico essere che abbiamo amato. E il pretesto è l’arte, cercando nella tavola pittorica (in ogni quadro) un errore manifesto, quello che lo renda più umano e alla nostra portata. E Reger ama solo Montaigne, Pascal e Voltaire…e spicca giudizi vetrioleschi su Goya e Velázquez, per tacere delle considerazioni sui più grandi compositori che abbiamo imparato a riverire. Li fa letteralmente a pezzi. Il suggerimento ultimo è quello di non ascoltar, di non leggere tutto sino in fondo, per non esserne alla fine storpiati. Poi sorgono dal fondo i doloranti ricordi dell’infanzia, un buco nero di disperazione, da cui bisogna uscire senza aiuti. Eppure non tutto può sgretolarsi e perdersi: la musica ogni volta salva; grazie al teatro si può ritrovare la fascinazione. Non c’e niente che possa salvare come l’arte, anche funesta. L’arte di sopravvivere…Sandro Lombardi esprime tutta la solidarietà al personaggio con il disincanto di una recitazione che, pur esplicitando la durezza e disperazione del testo, lo fa con una distaccata perentorietà, a giustificare il sottotitolo di commedia (nell’accezione di divertissement), sia pur feroce. Si erge nella tirata attoriale, là dove travolge e quasi ci convince che niente ci sia di compiuto sia nell’arte sia nella musica, che la perfezione di ciò che è compiuto è una minaccia. Partecipazione che in Lombardi si fa vivida immedesimazione, con salti di voce di quel suo timbro caratteristico, ricchezza di sfumature e colori, musicalità del dire e porgere.  Intensità di descrizione straziante, quanto rattenuta e tragica, alla commemorazione della festa di compleanno e morte della sorella: trauma e delusione, sospensioni cariche di pathos,  pause e dosaggi della parola. Degno alter ego è l’intenso Martino D’Amico, Atzbacher dal perfetto aplomb recitativo, che si fa analitico ascoltatore, quasi in funzione medicante, dello scavo dell’anima  di Reger. Regia sapiente, quasi una macchina ottica, di Federico Tiezzi, calibrata, fatta di piccoli gesti e stilizzati movimenti, astratta a proiezione mentale. Anche il custode Irrsigler, terzo uomo, pur non parlando riempie lo spazio teatrale con intensità di posture e movimento, ieratico clown novecentesco sceso da un quadro: un pregnante Alessandro Burzotta, a muto controcanto del dire di Lombardi e D’Amico. Scene e costumi di Gregorio Zurla, sottolineando con la fascinante installazione al neon, il fluire relazionale tra i tre uomini, su distinti divanetti, speculare atmosfera  vivente dei ritratti appesi. Luci perfette che riquadrano e inscatolano discorsi e persone, di Gianni Pollini. Inizialmente musiche irruenti mixate, poi trascrizioni di valzer straussiani, una spruzzata di dodecafonia alla Webern, terminando con lo struggente Soave sia il vento mozartiano, pria della lacerante elettricità di Nina Hagen a spiazzante finale. Successo caloroso di un pubblico poco numeroso ma attento.

gF. Previtali Rosti

 

foto Pastore

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