“Maria Stuarda”, teatralità di Schiller

Data:

 

 

Al Teatro Carcano, Milano fino al 12 novembre 2023

Maria Stuart è dramma romantico, scritto con forte idealismo da Friedrich Schiller nel 1800 – rappresentato per la prima volta a Weimar nello stesso anno- lo è soprattutto nel modo in cui l’autore rende il soggetto, già di se profondamente teatrale. Non teme di scostarsi dalla verità storica, prima fra tutte l’incontro delle due Regine che mai avvenne, alterò le loro età per meglio far risaltare la bellezza della prigioniera. Falso pure l’amore di Leicester (favorito di Elizabeth) per Maria e creata ex novo la figura dell’anglicano Mortimer, passato al cattolicesimo, “stregato” dall’idea di salvare Maria.Schiller preme il contrasto sì tra le regine, ma soprattutto tra le due donne: l’antitesi amore – politica è il perno del dramma che si staglia all’orizzonte, ma è fondante nell’animo dei due soggetti principali. Il drammaturgo raffigura il carattere di Maria in maniera molto romantica: oltre alla bellezza esteriore e di un’elevata moralità (ad onta di un passato non irreprensibile) l’aureola di una morte che la trasfigura. Delinea Elisabetta con tratti più marcati, d’inderogabile diplomatica ipocrisia in campo politico, ma sempre in lotta con se stessa tra dignità morale e amore. Sembra che al regista Davide Livermore il testo schilleriano non basti (nella nuova traduzione di Carlo Sciaccaluga, quasi integrale) poiché per sua ammissione “La musica sarà una delle colonne portanti della nostra storia” sente la necessità di integrarlo con apporti musicali che se da una parte trovano coerenza con l’idea registica, finiscono con l’appesantirlo, spostando spesso l’attenzione: un ibrido che non è opera né prosa. Fisicamente disturbante l’eccessiva amplificazione da discoteca, che fa vibrare la sala, memore di ben altre musiche. Per tacere dell’ormai triste, quanto ormai invalsa consuetudine dei microfoni in scena che livella le voci e appiattisce colori e sfumature: tutto si ascolta sul tono del mezzo forte e l’urlo lo diviene in massima misura. Conferma che l’artigianato dell’attore, dall’impostazione e della capacità di far correre la voce per la sala, è ormai retaggio del passato. Il prologo ci mette a parte della scelta di “chi impersonerà chi”, demandata al fato (nelle vesti di un piumatissimo Angelone del destinoLinda Gennari) che lascerà volteggiare, su una delle due protagoniste, la piuma del martirio (che poi è di entrambe le parti) di Maria Stuart, con urla e stridor di denti…Maria Stuarda, nella mia serata, è Laura Marinoni fasciata da Dolce e Gabbana in vestito rosso fiorato, bella e splendente nel radioso sorriso. Sfoggia una recitazione incalzante, di grande varietà di colori e accenti: ferma e decisa senza tentennamenti, regale anche nella sventura, sicura senza essere superba, lucida nei suoi diritti. Piagata nell’animo, la sua Stuarda torna a essere donna rassegnata al volere del Cielo; tremula si fa la voce per i sentimenti contrastanti che la travolgono, un’agitazione che si riflette sui gesti. Commossa dalla lettera di Mortimer, trasfigurata dai ricordi suscitati nella lettura, quasi danza dalla felicità. Incisiva nell’ironia col messo del giudice prima di controbattere, con energica fierezza, alle false accuse. L’incontro con Elisabetta (e Leicester a reggere il lanternino…) è al calor bianco, momento in cui l’attrice disegna una palpitante e umana Maria, attenta alle parole, dignitosa nell’umile prostrarsi, turbata ma desiderosa di pace. Drammatico momento, amplificato da una doppia caduta di teli – azzeccato coup de théâtrea svelare la rivale: tagliente questa, a fronte di una supplichevole Maria. La Marinoni si erge in tutta la dignità calpestata, di regina e di donna, impartendo una grande lezione morale (e di teatro). Elisabetta, fasciata in sberluccicantissime e sontuose mise dai marcati simboli della Croce (sempre firmate dai fantasmagorici D&G), è impersonata da Elisabetta Pozzi, che ne fa una regina lucida ma stanca, minata in quella maschera di biacca dall’algida decisionalità dettata dal dovere. Sguardi disincantati, misurata lentezza nell’esprimere il pensiero, imperiosa regina subdola e diplomatica. L’attrice fa trasparire l’animo torturato della donna (che pur sa commuoversi) ammantando il personaggio di pregnanti gesti espressivi, cui si aggiungono tratti di malcelata sensualità Nel duetto con Maria, la Pozzi s’introduce alla rivale con trattenuta vetriolesca ironia, lasciando poi esplodere una sferzante ferocia a schiacciarla, nella conclusione. L’ambiguità e la volubilità della donna si mostrano tutte nella scena finale, a sbalzo di un’anima trascinata da moti contrastanti che si ritroverà sola: stavolta sì, completamente sola. Gaia Aprea, Anna Kennedy, è la nutrice di Maria inizialmente dai toni sovraccaricati, trova poi accenti credibili e affettuosi di fedele attaccamento. Toccante come riesca, interpretando un altro personaggio, a rendere l’animo retto e integerrimo del giusto George Talbot, conte di Shrewsbury il cui finale, intessuto e lacerato da amare considerazioni e dolorosi fraseggi, non lascia indifferenti.  A conferma che il teatro è astrazione e sublimazione, evocazione di stati d’animo; l’immagine del personaggio si centra o no, indifferentemente dal sesso o dal colore di voce. E qui la scelta è efficace, senza necessità di “verità assoluta”. Olivia Manescalchi è il Cavalier Paulet custode e carceriere di Maria, misurato e fermo nelle decisioni dettate da un assolutismo alla patria, segnato da un aplomb che gli detta la giustizia. Interpreta inoltre un sagace e ironico Conte di Aubespine ambasciatore di Francia nonché l’algido William Davison segretario di stato. Mortimer intenso di foga e incoscienza quello di Linda Gennari, sfruttando l’ambiguità del ruolo e di età, costretta a sporcare la sua recitazione con volgarità gratuite. Follemente impulsivo, appassionatamente travolto da una causa che lo spinge al delirio, invasato di fiamma ardente è lui a sbalzare nel duetto con Leicester, un torrente di potenza sminuita da ridicole pistole… Suo è anche lo stranito e dolente Paggio servitore di Elisabetta. Sax Nicosia era un maturato Robert Dudley conte di Leicester, completando con il physique du rôle l’efficacia della sua prestazione. Completava il cast Giancarlo Judica Cordiglia William Cecil barone di Burleigh, un Lord Cancelliere non più che corretto, trovando più efficacia interpretativa nella modesta parte di Melvil, maggiordomo di Maria. Forse proprio la scarsezza di elementi maschili di spessore interpretativo deve aver indotto Livermore ad affidare le parti a donne, nettamente più credibili e capaci di suscitare emozioni. Chiudeva il quadro, o meglio lo ritmava in incessante continuazione con i suoi tocchi, Giua, chitarra e voce. Una produzione del Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e CTB Centro Teatrale Bresciano. Se l’impianto scenico di Lorenzo Russo Rainaldi, ridotto a un semplice praticabile utilizzato a suscitare i vari ambienti nella fantasia dello spettatore è utile a far risaltare l’unità del discorso schilleriano, legando la segregazione iniziale di Maria alla solitudine finale di Elisabetta, ma è nel “decor” modernista che raggiunge gli effetti migliori. Musiche di Mario Conte e Giua che hanno rielaborato brani da Purcell (ma quel Remember me dal Dido and Aeneas ne esce completamente privo di pathos…) a Dowland e Davide Rizzio. I restanti costumi erano di Anna Missaglia. Le splendide luci di Aldo Mantovani, i motivati e credibili i movimenti registici concorrono a farne, pur nelle sue ombre, uno spettacolo per molti versi pregnante. Questo è teatro “di parola” e per questo si viene a teatro, per la fascinazione del “detto”, per cercare nuove sperimentazioni ma non commistione di generi. Alla fine della serata è “la parola” a vincere operando sicuramente un remuement, incidendo nella coscienza dello spettatore. Successo caloroso.

gF. Previtali Rosti

Foto Alberto terrile

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