“Gradi di libertà”, il primo disco solista di Marcos

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É uscito venerdì 17 novembre 2023 su tutte le piattaforme digitali il primo disco solista di Marcos, musicista e autore, già noto per il suo ruolo in diverse formazioni (Seven Jay, Laika Vendetta, Hoka Hey). Questo EP dal titolo “Gradi di libertà“, è un disco personale, sentito e stratificato di influenze che partono dall’alternative rock, un nuovo capitolo e un nuovo inizio per l’italo brasiliano Marcos Cortellazzo, che nel titolo richiama un concetto di Statistica, intesa come scienza. Il gioco del Tris spiega infatti al meglio i gradi di libertà: ogni casella vuota rappresenta una “libertà” e a mano a mano che viene presa una scelta (X/O), le possibilità per l’avversario si riducono. Nel gioco, chi ci sfida crea dei vincoli tramite le sue scelte, lasciando a noi sempre meno spazio di movimento. Questo accade anche nella vita!

Milano, i suoi collaboratori e molto altro. Ne abbiamo parlato con lui.

Hai ancora qualche contatto a Milano, dove sappiamo che hai vissuto? Cosa ti ha lasciato questa città dal punto di vista musicale?

Milano sarà sempre la mia prima casa, dove sono nato e dove ho vissuto per oltre vent’anni. I contatti sono rimasti, certamente, ho la mia famiglia carnale e poi quella di amici stretti, direi fratelli, che risalgono alla mia prima band, i Seven Jay. Quando torno, torno anche per loro e mi mancano quando mi allontano. Mi manca anche la nebbia, si può dire? È sempre stata molto romantica per me, che sono uno poco romantico. Dal punto di vista musicale, Milano facilita le occasioni, i concerti e di conseguenza arrivare a creare un network (come direbbe un milanese). Ma alla fine, sul piatto della bilancia ho messo tutto e mi sento bene tra le montagne ed il mare. Ho scelto di restare in Abruzzo, e dare continuità alla tradizione della mia famiglia, che si trova sparsa per il mondo.

E quali luoghi di quella città ti rappresentano o ti mancano?

Mi manca il Parco Nord di Milano. Vedi? Credo che già a Milano andavo cercando quel verde che in città manca, ma che trovo quotidianamente dove vivo oggi. Poi mi manca il Rolling Stone, che non c’è più e dove ho visto dozzine di concerti. La zona di San Babila, oppure piazza Fontana: da lì giravo verso il Duomo e quando c’era la nebbia vedevo solo la Madonnina dorata spiccare in mezzo al grigiore. Di rappresentativo invece ti direi una via, via San Miniato in zona Bicocca. Ho vissuto lì i miei primi anni e quella periferia la sento ancora molto mia. La considero la mia radice a livello geografico.

Come hai conosciuto Warren Van Wyk, che ha suonato con te in questo disco? Hai dovuto spiegargli qualcosa oppure la resa è stata spontanea?

C’è questo sito che si chiama Fiverr, l’ho trovato lì. Il bello di internet. Vive a Pretoria, in Sud Africa. Navigando sul sito ho ascoltato diversi batteristi e alla fine mi piaceva il suo suono. Niente di romantico quindi, Warren si è rivelato un coltellino svizzero: io suono tutti gli strumenti che senti nei miei brani, ma le batterie le programmo con un software. Potrei anche lasciarle cosi, “digitali”, ma il tocco umano mi facilita di molto il lavoro, ho una batteria già definita che non consente troppe modifiche. Troppa libertà a volte, in produzione musicale almeno, risulta essere controproducente per me. Poi lui è veramente una macchinetta, lavora con tanti artisti ed è preciso e veloce. Non gli spiego nulla, gli mando il pezzo, con e senza batteria programmata da me, e lui la ricalca mettendoci però il feel reale. Direi un buon equilibrio tra l’uso della tecnologia e l’apporto umano, no?

Quanto sono importanti i social nella promozione di un disco? Riesci ad occupartene oppure senti che ti manca qualcosa? Che altro stai facendo in questo periodo per tenere vivo il tuo “Gradi di libertà”?

Ci ho pensato parecchio prima di ributtarmi nei social. Per anni non ho avuto nessun social network. Oggi è necessario, come lo era (lo è ancora per me) uscire su Music Club una ventina di anni fa per promuoversi, cambiano i tempi ed i modi. Arrivo dai tempi in cui, con la prima band, andavamo con le musicassette a consegnarle nei locali per chiedere di suonare. Non era promozione anche quella? Alla fine facciamo sempre lo stesso, oggi però ci sono questi strumenti social che a volte, non nascondo, demonizzavo anche io. Ti possono rincoglionire facilmente è vero, ma dipende sempre da te se esserne schiavo o fruitore. Non ho attivato notifiche, pubblico e rispondo a chi mi scrive secondo i miei tempi naturali. Cerco di programmare, l’organizzazione è essenziale. Chi fa un progetto originale ha questa arma oggi, non da poco, e può gestirla direttamente. Mi sembra un buon mezzo.

Rock ed elettronica vanno d’accordo quindi? Ci fai qualche esempio?

In Italia i Subsonica sono un buon esempio. Di esteri mi vengono in mente i Ramnstein. Oppure non so se ricordi i Battles, famosi con la canzone Atlas, usavano effetti elettronici anche loro. Ma poi in fondo dipende di cosa parliamo: se intendiamo con elettronica tutto ciò che esce da un arnese digitale, allora diciamo che nel 90% della musica di oggi c’è elettronica. Nei miei brani i tappeti di synth si confondono con le chitarre, ma sono basilari perché ti toccano in pancia. Se senti “Ci siamo abbracciati e siamo andati avanti” dal giusto impianto, ci ho messo un sub-synth all’entrata del ritornello che ti tocca fisicamente. La musica comunque segue i tempi, come tutto del resto, si sperimenta. Robert Fripp fece Frippertronics, Battiato, grande sperimentatore da sempre, usa l’auto-tune in Inneres Auge già nel 2009, quando non era così largamente usato. Insomma, dipende sempre come, ma bisogna sperimentare con una mentalità il più possibile aperta.

Morgana Grancia

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