Anna Maria Bacher e la poesia in titsch della Val Formazza

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Nel nostro peregrinare in lungo e in largo tra dialetti e lingue minoritarie del nostro paese abbiamo già avuto la ventura di soffermarci almeno su una figura di quel Piemonte espressione di migrazioni e commistioni al di qua e al di là delle Alpi. Ci riferiamo a Remigio Bertolino il cui dettato nell’arcaico parlata delle colline intorno a Mondovì è riconosciuto tra i più interessanti degli ultimi anni. È la volta adesso di Anna Maria Bacher, classe 1947, nativa di Grovella, piccola frazione di Formazza, nell’omonima valle del comprensorio della Val d’ Ossola, nell’estrema diramazione della regione. Luogo questo d’elezione, al di là di quello d’origine del vallese, dei walser, la popolazione di origine germanica abitante le regioni alpine attorno al massiccio del Monte Rosa che a partire dal XII-XIII° secolo tramite alcuni coloni finirono con lo stabilirsi anche in altre località dell’ intero arco, Italia compresa dunque. Di più, come la sola al confine con la madre patria della Valle del Goms, è quella ad esser riuscita tra tutte le colonie a conservare al meglio usi e costumi della tradizione. Lingua compresa. A sostenerlo è la stessa Bacher che oltre a rappresentare la migliore espressione della poesia titsch del versante italiano, già come presidente della Walserverein-Pomatt (Associazione Walser Formazza) dal 1991 al 2002 e membro del Consiglio dell’IvfW (Associazione Internazionale dei Walser ) dal 1992 al 2006 si è adoperata, e si adopera ancora affinché resti il più possibile viva l’attenzione per la tutela culturale del mondo walser in Val Formazza, e della sua lingua, il titsch, il “tedesco medievale, che i Walser, nel XII°-XIII° secolo, portarono con sé nei loro spostamenti migratori intrapresi per dissodare e colonizzare le zone alte e disabitate delle vallate alpine” (come da lei specificato). Vien da sé allora, la sua, una figura di operatrice culturale e autrice vivissima nella poliedricità delle vesti tra insegnamento (con corsi di titsch per le scuole elementari e per gli adulti) e le numerose pubblicazioni di testi poetici (nella versione anche in italiano, per sua stessa cura, e in tedesco di Kurt Wanner). Ad esempio di quanto detto basti riportare la motivazione del “Premio Ostana- Scritture in Lingua Madre”assegnatole nel 2019: “Il premio è conferito ad Anna Maria Bacher per l’alto contributo dato alla conservazione della memoria di una lingua minoritaria antichissima che lotta per la sopravvivenza. Da quasi quarant’anni, attraverso l’insegnamento e con la scrittura, Anna Maria Bacher è testimone attenta e ispirata di una cultura millenaria, fiorita nelle alte valli alpine; una cultura che vive nella simbiosi con la natura la sua anima profondamente poetica. Per mezzo della sua poesia, il piccolo universo dei Walser rivive i colori e i profumi delle stagioni, nel ritmo secolare di una cultura da salvaguardare in quanto patrimonio dell’umanità”. Fatiche e qualità riconosciute anche con altri importanti riconoscimenti, tra tutti nel 1989 del “Premio Culturale Martin-Peter Enderlin” dei Grigioni in Svizzera, nonché con la messa in musica di compositori svizzeri di alcuni testi e la versione in spagnolo da parte di Matteo Bianchi dell’Università di Salamanca.

Eppure, ed ovviamente, venendo al valore artistico della sua poesia, a connotarla non è una visione poi così edulcorata del suo piccolo mondo, di una comunità addossata a se stessa nella barriera di un margine felice da proteggere e mantenere nella ripetizione stanca della propria memoria. Piuttosto a intrecciarsi nella lotta e nella fatica di una comunità entro un territorio comunque non agile è l’agire di una parola, di un dettato ora spinoso ora però appunto addolcito nella contemplazione anche di un fiorire e un rifiorire dal basso di una natura che ha sempre un seguito di calore dal gelo di una consunzione cui l’anima stessa pare bloccarsi. Si legga in tal senso allora il testo esemplarmente più significativo, e non a caso dal titolo “Mim Tälli” (“Alla mia valle”), in cui l’evidenza dell’amore per i propri luoghi (comunque definiti “avara spina dell’anima”) è un’evidenza di contrasti, di affondi come detto nella frusta di una solitudine che lascia smarriti e nudi, prede della tormenta  e di un colore che sa riavvolgersi e accendere nella stagione bella della terra e del cuore. Contrasti che poi sono quelli di un deserto di accenti umani che sembrano più non saper rispondere come nell’omonimo testo (“Gagasatz”) al germogliare e al chiedere della vita nel paese tra case abbandonate e panchine su cui nella simbologia della piazza vuota sembrano sedere solo i “ricordi/ di persone amate”.  Perché infatti in uno dei dettati a lei cari la Bacher di tanto innamoramento non può che cantare della terra stessa la malinconia in un coro di bellezza che rischia di non esser più raccolto (e che però non cessa di tuffarsi come l’acqua “nella fontana/ con allegre parole di schiuma”) per impossibilità e per vecchiezza, gli stessi bambini “rari/come le farfalle” privi di gioia, colore, leggerezza. Ciò che fuoriesce allora, e non può essere diversamente (seppure è bene ricordare quanto lei stessa ebbe a dire in una bella intervista ad Enrico Rizzi a proposito dell’attrazione subita degli “aspetti contradditori fatti di luci e di ombre”, ossia di “un gioco di sentimenti opposti” in cui lasciarsi coinvolgere entro una natura in cui “si celano i miei demoni e i miei folletti”) anche per l’opera detta di tutela del patrimonio walser, è una preoccupata e amara consapevolezza non solo della pronosticabile estinzione della lingua titsch ma anche della sua cultura. A dirlo in “Z Tälli lêêt” (“La mia valle piange“) è il “lamento antico” che infatti si leva per i giovani costretti per necessità ad andarsene in un dolore, “al morire/delle sue frazioni”, cui “non c’è appiglio”.

Questo appunto da un lato nel racconto di una specificità che va scomparendo (in cui però si preoccupata di chiarire non c’è contrasto con la cultura italiana ma naturale coesistenza e se non reciproco arricchimento) e da un altro nell’apertura a una condizione di più universale sofferenza e prova entro una modernità di cancellazioni cui come ebbe a rivelare  il Professor Annibale Salsa nella sua prefazione alla raccolta poetica Colpo d’occhio (2015) sottolineando  in questa poesia della montagna il suo divenire “metafora dell’esistere”. Ma tanto di più c’è da ricordare di una capacità poetica che pure sa, nella sua ricercata semplicità, disegnarsi entro una raffinata e trasfigurante intimità degli elementi, di spazi riportati alla trasparente nudità d’uomo e ambiente al dialogo. Si vedano tra i tanti due testi, il primo “Der manä” (“La luna”) in cui il tema classico ha nello sguardo alla luna l’evocazione di un incontro in cui come in un gioco pare pian piano seguirla illuminandole d’argento i capelli nel porsi l’una di fronte all’altra: “tu/con la tua luce,/io/coi miei pensieri”. Oppure “I gaa der enki Wägjê” (“Cammino per stretti sentieri”) dove la cadenza della salita in montagna gradualmente libera da ogni affanno il corpo facendolo più leggero (” resina e profumo di formiche/ mi vengono incontro”) e infine “più spirito” di fronte alla scoperta forza del ghiaccio, oltre gli alberi. Così se è vero come da lei stesso ricordato di una scrittura nata per la sua gente, per chi nel contatto con la natura vive e trova conforto (“La mia è una poesia che non vuole dimostrare niente, desidera solo condividere emozioni e sentimenti da me provati in un determinato e preciso momento”) pure nel raccordo tra chi è stato, e in qualche modo ha ancora cura, ancora custodia, e chi del passaggio si fa memoria e rilancio e nuova voce è chiara la direzione di una condizione che in quanto prettamente umana non può in profondità non toccare e coinvolgere lettori più diversi. Come in questi versi, bellissimi, con cui andiamo a concludere:”Come in cielo/vegliano gli astri di notte,/così, con occhi di stelle,/vegliate voi, cari morti,/ sulle patate/che crescono al buio/sotto terra”.  Non possiamo che ringraziare la cara Bacher per l’aspra dolcezza dei suoi richiami, per il suo sforzo di raccontarci tutti perché se tanti gli uomini, tante le donne, uno solo il mondo nella varietà delle sue istanze e delle sue lingue. Una poesia classica nel senso più nobile del termine questa.

Gian Piero Stefanoni

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