Dio esiste?”, “Se ci credi esiste, se non ci credi non esiste

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“Bassifondi” o più comunemente chiamato “L’albergo dei poveri”, è un dramma teatrale scritto nel 1902 da Maksim Gor’kij, messo in scena per la prima volta, con molto successo, da Constantin Stanislavskij, al Teatro di Mosca, nel 1904.

E nel 1947, Giorgio Strehler lo scelse per inaugurare il Piccolo Teatro di Milano.

E oggi, dopo le versioni cinematografiche firmate Kurosawa, del 1957 e Renoir, del 1936, ci viene riproposto da Massimo Popolizio, regista, e anche attore nei panni del Pellegrino, con riduzione teatrale di Emanuele Trevi.

Cosa rende quest’opera così attuale? Prima di tutto perché è un classico, e come tale va oltre i tempi e lo spazio. Popolizio decide di non fare cambiamenti temporanei, pur concedendosi un paio di licenze, la radiolina a transistor e il Principe di colore di religione musulmana. Ogni scelta registica ha un suo perché, e anche se il risultato finale ci soddisfa sufficientemente, non possiamo però fare a meno di pensare che sarebbe stato un testo adatto all’ attualizzazione, ambientandolo, per esempio, in un uno dei tanti Budget Motel degli Stati Uniti, e a tal proposito mi viene in mente un piccolo ma ben fatto film indipendente del 2017, “The Florida Project”, diretto da Sean Baker e interpretato da William Dafoe nei panni del manager. In questo apparentemente solare motel dalle mura dipinte di accecante rosa shocking, vive povera gente che non può permettersi di abitare altrove, pagando, quando può, affitti settimanali o mensili. Gente che ha perso il lavoro, la famiglia, l’onore, che è appena uscita di prigione, che vive rubando, bevendo, battendo la strada o pensando a come suicidarsi, tra risse, gelosie, piccoli o grandi drammi. E il manager cerca di tenerli tutti a bada, usando a volte il bastone, a volte la carota.

Gor’kij, quei posti senza luce e senza speranza, li ha conosciuti veramente, forse ci ha anche vissuto, fianco a fianco con derelitti e perdenti, sognatori e assassini, prostitute e bari. Gor’kij è un bolscevico che con compassione e assenza di giudizio, ne fa dei protagonisti assoluti, elevandoli a rappresentanti di una più vasta umanità, portandoli fuori da quel luogo oscuro e maleodorante, illuminandoli di una luce carica di pietà e simpatia. Divina, potremmo dire, se Lenin glielo permettesse…

Un dramma corale, ben orchestrato e recitato,  dove c’è la prostituta, il sarto, il ladro, il barone, il parassita e la moglie in fin di vita, i proprietari, l’attore, la giovane ossessionata dal romanzetto “L’amore fatale”, son tutti in cerca di qualcosa, di qualcuno, passionali, violenti, a volte ironici, pronti alle risse, anche all’omicidio. Il tutto annaffiato da quel forte anestetico chiamato Vodka, l’unico mezzo a loro disposizione per dimenticare la miseria delle loro vite. Da quel dormitorio vorrebbero tutti scappare, eppure, una forza quasi sovrumana sembra impedirglielo. E se mai dovessero provarci, eccoli ritornare in quel luogo maledetto, l’unica realtà che conoscono e dove si sentono davvero sicuri. Come lasciare una prigione e non sapere dove andare…

Ma a un certo punto appare il Pellegrino, interpretato da Massimo Popolizio, tiene tra le mani un bastone ricurvo, una folta barba gli incornicia il volto, una palandrana nera sul corpo imponente, altro di lui non sappiamo. Esiste? È una proiezione dell’immaginario collettivo? È un santo? È Dio che si è fatto uomo?

Sembra avere famigliarità con tutti, si fa volere bene, elargisce insegnamenti e massime.

Poi, all’improvviso, scompare, silenzioso come quando era arrivato. Al suo posto, un uomo penzola con la corda attorno al collo. È l’attore che, stanco di annegare nella Vodka i suoi sogni infranti, ha preferito la morte.

“Dio esiste?”, “Se ci credi esiste, se non ci credi non esiste”

Daria D. Morelli Calasso

Foto Claudia Pajewski

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