Una riflessione sulla Medea di Caterina Costantini
Non si è lontani dal vero sostenendo che gli autori di teatro di oggi riscrivino le stesse storie e ripercorrano gli stessi miti e leggende dell’antichità in un continuo ripetersi del concetto drammatico di base. Come negare che Edipo sia lo spunto di partenza di ogni narrazione o rappresentazione fondata sull’intrigo e sul mistero! Anche Shakespeare ha affondato le mani nel mondo classico (oltre che nella letteratura italiana) traducendo l’Orestea nel castello di Elsinore di Amleto.
La Medea di Euripide, ovvero la <<scaltra>> questo il significato del nome, ha precedenti nelle Argonautiche di Apollonio Rodio che a sua volta… ecc. ecc., quindi non sfugge al suo destino di eterno ritorno. Un destino che prosegue con Seneca, anch’egli autore di una riscrittura, ripresa per altro da Ovidio, della madre assassina per sete di giustizia, ma anche frustrazione e isteria vendicativa nei confronti del partner. Seneca infatti fa rivivere il personaggio alla luce della sua individualità che si incarna in un Io al femminile, mi rimane Medea! Così il passaggio di epoca in epoca attraverso i millenni, da Seneca a Corrado Alvaro de La lunga notte di Medea attraverso Corneille, Grillparzer, Anohuil ha di volta in volta attualizzato e trasformato la tragedia classica in un dramma che ha assunto progressivamente le caratteristiche lessinghiane, detatte nella Drammaturgia d’Amburgo, di teatro borghese. E qui citerei Pasolini che a proposito della sua Medea interpretata dalla Callas rigetta invece la “modernità borghese” del mito (vedi la sua intervista alla Rai in “Fuori Orario ” del 26-02-2010). Mito da restituire, secondo Pasolini, alla sua arcaicità primordiale in cui l’essenza drammatica valida ancora oggi è data dallo scontro di classe.
Che i miti rappresentino comunque archetipi indelebili che si perpetuano nei millenni è dimostrato dal ricorso (Edipo, Elettra) che ne fece Freud per definire le zone d’ombra dell’essere umano. Così la “sindrome di Medea”, come viene definita in psicoterapia, ripresentandosi tragicamente ai nostri giorni in numerosi fatti di cronaca, si trasforma da mito in chiave di lettura, non solo del passato classico, ma anche del presente. Il che ne spiega e giustifica la continua, prolifica opera di rivisitazione.
Tra le varie “medee” cui ho assistito quest’anno – lo dico senza escluderne altre che mi sono perso e quindi non posso giudicare – questa firmata, diretta e interpretata da Caterina Costantini è tra le più avvincenti e convincenti sia da un punto di vista drammaturgico che spettacolare. La Costantini evita il rischio e il facile fascino dell’attualizzazione, come casi recenti di madri assassine di figli avrebbero potuto facilmente suggerirle. Caterina come seguendo l’idea di Pasolini di una Medea anticontemporanea, si basa su due testi classici, Euripide e Seneca, giungendo ad un’efficace sintesi che si avvale di una recitazione ed impostazione scenica, dai costumi all’interpretazione drammatica della Costantini stessa e dalla commovente nutrice di Lorenza Guerrieri, da teatro greco-romano vero e proprio. Classiche e robuste anche le prove di Marco Bianchi (Giasone) e Vincenzo Pellicanò (Creonte) coadiuvate dal Coro ben reso da Laura Mazzon e Patrizia Tapparelli. Atmosfere musicali e sonore ricche di richiami e rimandi ad un “altrove” mistico di Eugenio Tassitano.
Uno spettacolo insomma ricco di spunti drammaturgici e da consigliare per la messinscena, che mi offre comunque un ulteriore spunto di riflessione circa l’efficacia del teatro classico sullo spettatore moderno che dalla poltrona non percepisce facilmente di essere co-protagonista di un rito sacro. In effetti lo spettatore odierno tende a restare nella posizione dell’osservatore esterno che ammira un reperto museale o assiste ad una interessante rievocazione storico-didattica o letteraria senza un sussulto interiore, una percezione di incombente pericolo e paura.
La questione che mi pongo è se il teatro greco possa veramente essere trasferito in una struttura architettonica diversa dal quale esso è concepito. Lascio appositamente per ultimo nell’elenco degli interpreti di questa buona prova il personaggio del Nunzio di David Varone Kagel che opportunamente irrompe all’inizio in sala con i versi di Seneca in latino. Una sorta di rottura della quarta parete che mira a coinvolgere il pubblico nella tragedia fin dal prologo. L’intento di ricreare la catarsi come nel teatro classico è corretto, ed ha anche una certa efficacia. Tuttavia, proprio a causa della struttura e architettura del teatro con palcoscenico rialzato da commedia o dramma borghese, lentamente evapora la prima sensazione empatica e catartica, mentre via via la rappresentazione si trasforma in una eccellente prova attoriale che tende però alla recitazione del testo e non alla “trasmissione” del “tragico”. Per questo motivo il Coro non innesca la sua funzione di rapporto mediatico tra spettatore e azione scenica, per concentrarsi invece in un ruolo, mi si consenta il gioco di parole, appunto coreografico. Bello da vedere e ascoltare ma che non diventa espressione di un sentire comune.
Il teatro classico del resto non a caso riservava un posto per Dioniso, il dio che vede ma non è visto dal pubblico che, sentendosi osservato dall’alto, si percepisce così responsabile in prima persona della tragedia e del mito: da giudicante in giudicato.
Enrico Bernard