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La bustina di Dioniso. Leggo o scrivo, il dilemma dei nuovi Amleti

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Pirandello osservò con amarezza  che o si vive o si scrive. Ma in barba al motto pirandelliano oggi, in tempi di social,  la questione ha assunto un aspetto ancor più edonistico: o si legge o si scrive. La lettura infatti viene spesso tralasciata come funzione culturale per darsi completamente alla scrittura, quasi sempre autoreferenziale e dilettantesca. Ma leggere più libri, è la domanda, creerebbe autori migliori?

Mi occupo del tema sollecitato e stimolato da un post del gruppo FB  “Segnalazioni letterarie” in cui Sergio Sozi giustamente osserva: chi non legge libri, non dovrebbe neppure pubblicarne. All’amico Sergio è  comunque scappato un lapsus che merita una precisazione. Non è che chi non legge libri non dovrebbe neanche pubblicarne, ma dovrebbe evitare di scriverne. Comunque sono seguiti ben 123 commenti, tra cui il mio, che intendo qui meglio precisare.

Oggi in un periodo di crisi assistiamo all’aumento vertiginoso di  scrittori e i poeti. Paradossalmente  però diminuisce in proporzione il numero dei lettori. Più si scrive, meno si legge. Ma è sempre stato così?

Prendiamo un periodo storico di grande crisi, la svolta romantica tra fine Settecento e  primi dell’Ottocento agli albori del secolo dell’industrializzazione, dello sfruttamento delle risorse naturali e dell’alienazione del lavoratore fino alle prime catene di montaggio. La scissione tra Uomo e Natura provocò un profondo disagio: da questa condizione spirituale prese le mosse la rivolta romantica. La quale fu senz’altro una risposta individuale, un atto psichico (di cui tratta Marx nell’illuminante saggio L’ideologia tedesca) che si materializzò in opere tipiche del periodo: le fughe dal reale di Kleist o Novalis, Peter Schlehmil l’uomo che perde l’Ombra-Identità di von Chamisso, le fiabe macabre dei Grimm, il salotto degli orrori dell’Uomo Sabbiolino di E.T.A. Hoffmann, il Frankenstein di Mary Shelley, Poe, i suicidi del Werther di Goethe e dell’Ortis di Foscolo. Proprio Werther e Ortis rappresentano la cartina di tornasole di ciò che sto per dire.  Questi personaggi suicidi provocarono una lunga serie di tragedie emulative che costituirono addirittura un fenomeno di massa: il  suicidio come atto di rivolta contro la società borghese e l’emergente capitalismo industriale.

Parallelamente si sviluppò proprio all’inizio del XIX secolo un particolare fenomeno sociale: triplicarono soprattutto in Germania gli scrittori. Già, perché la scrittura fu interpretata come un atto liberatorio, un’affermazione spirituale sostitutiva del suicidio stesso. O si scrive o ci si ammazza, ma comunque – il che spiega il successo del romanzo di Goethe come uno dei primi bestsellers della storia – prima di tutto si legge.

Invece saltando a tempi recenti, durante la recente pandemia e la reclusione forzata tra le pareti domestiche, si è assistito, come sempre succede in periodi di crisi, ad una incredibile proliferazione del numero  dei “presunti” scrittori. Hanno cominciato insomma a scrivere tutti: donne, vecchi, bambini, uomini soli, scapoli e ammogliati. Ci si aspettava un’ondata di nuove nascite a causa della lunga convivenza e della clausura, in realtà si è partorita solo una montagna di carta. Purtroppo da macero.

Il che, beninteso, potrebbe  essere interpretato come un fenomeno culturale positivo, se fosse scaturito, come nel periodo del Werther di Goethe, dalla lettura, dalla passione per una narrazione appassionante e coinvolgente. Invece, niente di tutto questo. La scrittura di massa si è rivelata non tanto come espressione di un bisogno interiore, ma spesso  e volentieri è scappata fuori dalla noia, purtroppo inversamente proporzionale al “consumo” di libri. E, una ciliegia tira l’altra, dalla letteratura come svago e passatempo si è saliti di livello passando all’ambizione letteraria quasi sempre velleitaria e temeraria.

A questa punto verrebbe lecito interrogarsi: gli scrittori, i poeti, debbono per forza leggere prima di scrivere per potersi definire veri artisti? La risposta al quesito è più complessa di quanto sembri a prima vista. Verrebbe da rispondere: certamente, bisognerebbe prima leggere, formarsi un cultura e poi pensare di imbrattare le carte. Ma un buon lettore, un lettore seriale può  riuscire a realizzare il sogno di creare uno scrittore degno di questo nome? Senz’altro, ma unicamente leggendo e comprando i suoi  libri, mentre se scrive rischia di creare solo un povero illuso o un fallito.

Pare ovvio d’altronde che lo Scrittore, cominciamo a usare la maiuscola, debba vantare una “cultura”, ma non è detto che questa cultura debba essere esclusivamente libresca. Omero scriveva benissimo, ma di libri letti neanche a parlarne. Eschilo non ha mai letto Shakespeare, e lo stesso Bardo non si è rovinato la vista su Pirandello. Del resto si dice “libresco” per intendere “pedante”, “intellettualistico” ovvero “fine a se stesso”. La cultura invece è un concetto pratico che deriva da moltelici esperienze, certo anche, ma non solo  letterarie.  Rappresenta dunque uno strumento che ci permette di rapportarci con gli altri e di comprendere la realtà. Magari per cercare di trasformarla, migliorarla.

Umberto Eco sostenne, non ricordo dove, che i libri non bisogna necessariamente leggerli, almeno non tutti.  Sono strumenti di lavoro come cacciaviti, pinze e martelli. Ed è proprio così bisogna saperli “usare” nel momento in cui servono.

Un mio amico di origine campagnola del Sud legge molto, lavora coi libri,  e scrive romanzi pseudo storici pallosissimi quanto inutili. Se invece scrivesse la storia della sua cultura non libresca, non intellettualistica, della sua famiglia e delle sue origini e tradizioni  contine e popolari sarebbe più  utile a se stesso e ai lettori. Non è un caso che una tra le  opere  più interessanti del Novecento sia “Terra matta” (Einaudi) di un semianalfabeta contadino, Vincenzo Rabito. Quindi la lettura di libri non è necessariamente cultura, la cultura non crea  necessariamente arte. Il concetto di stile che si formerebbe leggendo opere altrui è una verità parziale poiché il concetto di stile è antitettico alla novità della scrittura. Ne sia esempio il saggio di Pirandello su Goldoni in cui si afferma che il Veneziano, a detta dei suoi contemporanei, scrivesse male.  Ma scriveva “male” – aggiunge Pirandello – perché scriveva “nuovo”: tutti coloro che scrivono “nuovo”, conclude  Pirandello, danno l’idea al proprio tempo di scrivere male.

Ma allora, sbotta forse chi mi sta leggendo: bisogna leggere o no per poter  scrivere? Beh, la risposta sta nel semplice fatto, caro lettore,  che stai seguendo queste mie note ponendoti il problema in modo che io, che sto scrivendo, possa a mia volta leggere la tua opinione e risposta – qui torno al post su FB da cui sono partito. Questa è in definitiva la funzione della letteratura che  si costituisce come “cultura” nell’atto dello scambio tra Me e Te, tra  Lettore e Scrittore (come vuole Calvino in  Se una notte d’inverno un viaggiatore).

Almeno i classici, mi domando in conclusione, vanno letti, sono indispensabili pur se “libreschi” alla formazione di una cultura personale? Mi  rispondo col concetto delle tre temporalità dell’opera letteraria che Thomas Mann delinea nel romanzo Doctor Faustus.  C’è il tempo della storia narrata,  il tempo di chi scrive  e il tempo di chi legge poiché l’opera d’arte è (Pasolini docet) sempre “aperta” al nuovo, cioé al tempo del lettore che  la interpreta sempre con un diverso paio di occhiali facendone uso in rapporto al suo tempo. (vedi il mio intervento in Academia.edu: https://www.academia.edu/24321090/Il_fine_della_letteratura_da_Thomas_Mann_a_Carlo_Bernari_e_Roberto_Saviano)

Enrico Bernard

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