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Umberto Orsini da non perdere all’Elfo Puccini

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In scena fino al 19 maggio al Teatro Elfo Puccini di Milano

Dall’alto dei suoi incredibili novant’anni (festeggiati lo scorso aprile), agiti in scena come nessun altro, Umberto Orsini caparbiamente porta in tournèe sui palcoscenici italiani Le memorie di Ivan Karamazov, intelligente e affascinate produzione della Compagnia Orsini. Spettacolo andato in scena in prima nazionale a Milano nell’ottobre del 2022, trova ora ospitalità al Teatro Elfo Puccini. L’attore novarese torna per la terza volta ad accostarsi al monumentale lavoro di Fëdor Michajlovič Dostoevskij I fratelli Karamazov: nel 1969 fu uno dei protagonisti dello sceneggiato del regista Sandro Bolchi, sceneggiatura-adattamento di Diego Fabbri. Le sette puntate ebbero un successo enorme, sia per spettatori della serie televisiva, sia di critica, tanto da riflettersi sulla diffusione del romanzo, divenuto in breve tempo un best seller. Nel 2014 è la volta di La leggenda del grande Inquisitore. Ancora più rastremata di allora, Le memorie di Ivan Karamazov, nella drammaturgia dello stesso Orsini e di Luca Micheletti, sono una sofferta ed enigmatica riflessione sull’identità dell’uomo le cui parole, fuse e intrecciate su una stringente musica, diventa dialogo emozionale, struggente e straziato al tempo stesso, a metà tra finzione letteraria ed enigmatico dissidio di uno scavo psicologico. Umberto Orsini è Ivàn Karamàzov, ormai invecchiato, si misura col proprio io e le ombre interiori a decenni dai fatti accaduti e raccontati in prima persona, con il se stesso giovane e con i fantasmi del suo libero pensare. Questa drammaturgia si prende la libertà di farne un personaggio che resiste nel tempo, in disperata e serrata lotta per far luce sulla sua filosofia di vita e il suo pensiero. In scena, l’attore è circondato da echi demoniaci a suscitare fittizi interlocutori, suscitati dal suo stato psicologico, resi faustianamente credibili da una semovente macchina parlante. Ivàn ha esposto al fratello Aleksej un suo racconto allegorico ambientato in Spagna, ai tempi della Santa Inquisizione. E’ Cristo in persona che ritorna sulla Terra: riconosciuto e incarcerato dall’Inquisitore sarà condannato a morte. Incontro in cui Ivàn, sfruttando un fascinoso specchio a simulare il doppio personaggio, si muta nella figura dell’Inquisitore che serratamente argomenta di temi capitali quali fede, mistero, libertà e peccato. La fascinazione del teatro inizia a luci spente e velario ancora tirato: la presenza del grande attore è palpabile ancor prima che inizi a recitare, svelando il culto della parola che il grande interprete sa esprimere in ogni sottigliezza. Si profila un personaggio cerebrale e tormentato, che definisce se stesso lucidamente cattivo e pazzo, disgraziatissimo nuovo Amleto, ragionatore implacabile. Come non rimanere stupiti allora dell’affinità che s’intreccia fra l’attore e il personaggio (non riuscendo più a distinguere chi sia il sosia di chi) ottenuta con ferrea tecnica, frutto di lavorio e politura in anni d’intenso artigianato attorale, impreziosita da sospensioni di voce cariche di tensione che rendono il lucido e cinico disincanto di Ivàn. Il mistero del dolore, tema che da sempre sfida le nostre povere intelligenze umane, e l’esistenza di Dio. Quegli uomini che, come Ivàn Karamàzov, amano la vita ma scelgono l’inferno, prigionieri dell’inazione. L’eterno motto di salvare e salvarsi: si torna sempre a Cristo. Segue la drammatica e folgorante scena dell’Inquisitore, in cui la parete si apre a mostrare uno sdrucito e opaco specchio, riflesso e coscienza di sé. Dostoevskij trascina, per mezzo di Orsini la soggiogata platea in una trattazione teologica, accorato scontro con la divinità, in cui il personaggio non teme di sfiorare la blasfemia cui è sottesa una ricerca di senso: perché sei venuto a disturbare il nostro lavoro?  Stupefatta tensione. Miracolo e Mistero le principali manifestazioni per attrarre l’umanità e Ivàn/Inquisitore che si erge senza timori reverenziali a correttore della Sua Opera! L’Inquisitore non ama Cristo (e lo confessa apertamente), ergendosi a suo pari, novello Lucifero che odia gli uomini. L’inquisitore altri non è se non la proiezione romanzata di Ivàn, che si disincanta riconoscendo non poter stabilire la propria debolezza e, di conseguenza, dichiarando l’assoluta e completa sfiducia verso tutti gli esseri umani.  “Non più ribellarsi, sognare, darsi pena…” Spettacolo di grande fascinazione e raffinata intelligenza, reso pregnante da una regia dello stesso Micheletti, coautore drammaturgico, che sposa con la stessa passione rappresentativa per l’intensità dei temi che il testo fa emergere. Cura e maestria si riflettono nell’allestimento, scene di Giacomo Andrico, suscitatore della magia creata dall’ambientazione in quell’abbandonata aula di tribunale, delabrè, e pur ricca di memorie ivi depositate, quasi proiezione di un habitat mentale degradato e sregolato. Perfettamente inseriti i costumi di Daniele Gelsi, naturale riflesso dell’allestimento in omogeneità di adesione all’idea registica che sempre meno è dato trovare. Lo stesso dicasi delle fondamentali luci di Carlo Pediani a rendere palpabile l’atmosfera cerebrale, quando misteriose e gelide sciabolano dall’alto o sorgono dalla botola. E per ultimo la semovente macchina parlante: trombe fonografiche a simulare l’ipotetico interlocutore interiore e demoniaco.  Grande serata di teatro, coronata da un diluvio di applausi e reiterate ovazioni.

gF. Previtali Rosti

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