Sarà capitato anche a voi di sentirvi dire: questo testo non è teatrale, o peggio ancora: è scritto male! Tranquilli, mantenete la calma, non siete i primi, anzi siete in ottima compagnia. Se lo sentì dire anche Pirandello da Croce, da Tilgher e da Gramsci – naturalmente con svariati distinguo – di essere troppo concettuoso, troppo verboso, troppo astratto. Tant’è che il povero Luigi nazionale dette di matto all’Eliseo in occasione della prima dei Sei personaggi: voleva fare a botte con pubblico e critica, come racconta Andrea Camilleri ne La favola del figlio cambiato. Si pensi addirittura che quel termine filosofico con cui oggi si definisce il teatro dell’Agrigentino, il pirandellismo, fu ideato da Adriano Tilgher non certo in senso positivo. Pirandello non la prese troppo bene e tornò più volte a rispondere all’accusa di scarsa teatralità ed eccesso di filosofismo che gli si muoveva. Ad esempio in Arte e scienza (I due libri del 1908) Pirandello polemizza aspramente con Croce e con gli altri suoi critici – presentendo l’aria che tirava:
Di natura s’è fatto naturalismo; di reale, realismo; di vero, verismo, e via dicendo. Il Capuana ha pur combattuto e non poco contro tutti questi ismi contemporanei; e di uno, anzi, che gli s’era attaccato addosso, o meglio, che avevano voluto appiccicargli a dispetto, ha pur dovuto soffrire durante la lunga carriera letteraria.
Poteva immaginare l’autore di queste parole che proprio addosso a lui si sarebbe attaccatto quell’ismo, il pirandellismo appunto, come a dire il surrogato di una filosofia postidealistica un po’ pasticciata e orecchiata che faceva sorridere Benedetto Croce e irritare Andriano Tilgher che la definiva come complesso teorico di assoluta antiteatralità?
E lo dissero in tanti (almeno fino al Nobel del 1934 che tacitò molte bocche) che Pirandello non fosse teatrale. E lui rispose a tono dedicando agli argomenti dei suoi detrattori due noticine piccanti contenute ne Gli scritti con <Taluno>. Abbasso il pirandellismo e La barzelletta del <teatro teatrale>. Nel primo scritto se la prende con questo nome che, per colmo di sventura, non è nemmeno più il nome, ma è diventato la radice della parola <pirandellismo>. Pirandello fa poi seguire una polemica sulla distinzione crociana tra poesia e teatro, tra opera letteraria e opera teatrale. Di qui nascerebbe la considerazione che il testo teatrale sarebbe “scritto male”, una sottospecie dell’opera letteraria di qualche valore estetico. Insomma, se è teatro non è arte e se è arte non è teatro, questo il concetto che lo mandava giustamente fuori dai gangheri.
Alchè prese la palla al balzo in una commemorazione di Goldoni (in Esternamenti) asserendo che scrive male chi scrive “nuovo”, ossia che le nuove forme estetiche comportano sempre una reazione negativa e la novità, la rottura con gli schemi preesistenti viene sempre percepita negativamente come un non saper scrivere. Ma ascoltiamo Pirandello:
Pensate che finanche Goldoni, che oggi a noi sembra quanto di più semplice e accessibile si possa immaginare; il cui stile ci sembra così schietto e aderente alla realtà dei suoi personaggi tolti proprio di peso dalla vita del suo tempo; finanche Goldoni, neppure ai suoi tempi, fu riconosciuto. E quante gliene dissero! Che scriveva male, subito, e glielo dissero tutti!
Pirandello parla di Goldoni, ma sotto sotto pensa anche al proprio destino. Dicevo che solo il Premio Nobel tacitò ogni critica, ma non sempre – lo dimostra la costante smorfia dei letterati e dei colleghi invidiosi – il riconoscimento ambito è la cura giusta per questo tipo di malattia: l’invidia e la malafede. Lo dimostrazione vivente è Dario Fo, che però viene accusato del contrario, cioè di essere poco letterario e quindi troppo teatrale, in sostanza di scrivere a sua volta male per eccesso, e non per difetto, di teatralità. Cosicchè per il mondo letterario è stato come un affronto che il Nobel sia andato ad un „giullare“ che non sa scrivere ma sa – e ti par poco?- soltanto recitare e casomai scrivere per la scena.
Fin troppo facile oggi dare ragione a Pirandello e aggiungere: casomai il teatro che cerca di non essere letterario e di scapolare la sua missione filsofica e ideologica, il testo fotocopia del parlato, quello sì che è scritto male, semplicemente perchè non è scritto. Non ha forma e non può elevarsi ad una compiuta ed apprezzabile drammaturgia.
Un esempio: ora sono in un bar, ascolto il dialogo di due imbecilli. Se lo registro, lo copio, lo porto in scena, non avrò un testo teatrale, ma il dialogo di prima, cioè di due imbecilli. Col terzo imbecille che sarei io, doppiamente, prima ad ascoltarli e poi ad illudermi di poter dar loro una dignità drammatica. E risparmiatemi la filippica che la rappresentazione di un dialogo imbecille sia una forma di „critica“ dell’imbecillità. E’ imbecille e basta.
Il problema è che dopo la comparsa dei primi testi minimalisti, superati in cretinaggine e pochezza dai reality, a nessuno si riserva più l’epiteto di scrivere male – mentre invece si continua ad insistere con l’accusa di „letterarietà”. Dal momento che la scrittura, soprattutto teatrale (mi riferisco alla mimesis con la realtà, il testo fotocopia) oggi tende ad imitare sempre più una realtà in cui si parla – e si pensa – male, con la giustificazione che la rappresentazione della realtà non è arte della rappresentazione, non rielaborazione formale ma riproduzione meccanica, ecco che lo scrivere male, l’essere “reale” e non “letterario” diventa un pregio del teatro e non un difetto.
Prevedo l’obiezione secondo a quale i grandi autori da Ruzante a Goldoni, da Viviani a Eduardo, portano in scena una realtà viva, diretta, immediata. Ma siamo poi tanto sicuri che queste loro forme di rappresentare il reale, il mondo, sia davvero diretta, mimetica, copia-incolla? Direi proprio di no. Viviani, per fare un esempio, „estrae“ i personaggi dal suo mondo circostante, quindi dal „loro“ mondo, e li fa vivere come essi apparentemente sono. Ma in realtà li trasforma facendoli trapassare da personaggi, appunto reali, in personaggi di una rappresentazione di cui l’autore crea la drammaturgia, la forma, in cui essi si „cangiano“ pirandellianamente in un „altro da sè“. In cosa? In maschere, concluderebbe Pirandello, in „forme“ (e non pezzi) della realtà semplifico io.
Nella difesa del realismo di Goldoni, Pirandello non attribuisce l’accusa rivolta al genio Veneziano di „scrivere male“ al fatto che i dialoghi goldoniani siano effettivamente realistici: no, Goldoni viene preso di petto dai critici, perchè – ripeto – scrive „nuovo“. Ma qual è, quale può essere secondo Pirandello, la novità di Goldoni? Non certo quella di far parlare i personaggi come sono nella realtà, ma quella appunto di estrapolare la loro realtà attraverso un nuova forma. In altre parole in una nuova drammaturgia. E lo stesso vale per l’Aretino, il Ruzante, Viviani, Eduardo.
Ecco quindi che quando “vi” o “ci” accusano di scrivere male, non lo fanno perchè adotatte un certo tipo di linguaggio banale, bensì perche’ forse – me lo auguro – state arrivando, cari scrittori di teatro, ad una dimensione drammaturgica formalmente nuova, non banale, diversa e per questo dissonante. E che “stona” , infastidisce.
Se invece vi dicono che sapete scrivere, comiciate a dubitare immediatamente di voi stessi. No cedete alle lusinghe del tempo e degli amici.
Siate brutti, siate nuovi, siate rivoluzionari.
Enrico Bernard