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La regola dei quattro perché. La rubrica di Enrico Bernard

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La drammaturgia italiana, salvo eccezioni,  è afflitta da un male storico: la mancanza di <necessità>.

Naturalmente la stragrande maggioranza dei  testi che capita di leggere, nelle giurie di premi o  in redazione,  trae spunto da argomenti onestamente e diligentemente sentiti, percepiti come <urgenti  e  necessari>. Va pure riconosciuto che spesso – anzi quasi sempre – questi spunti <reggono>, almeno  nelle prime pagine, l’interesse del lettore e dello spettatore.

Ma lo spunto, l’idea iniziale spesso non bastano e, dopo qualche scena, cominciano le prime difficoltà di lettura.

Mi trovo così spesso a domandarmi se sono io a leggere  in maniera superficiale, magari in un momento sbagliato, forse distratto da altri pensieri, ma insomma: stento nella maggior parte dei casi e <tenere> viva l’attenzione e ad appassionarmi nella lettura.

Si dirà: il teatro necessita di una dimensione immaginaria, visiva e rappresentativa diversa e superiore alla lettura <semplice> di un’opera narrativa. Premesso che non sono d’accordo su questo punto, – poichè ritengo che la drammaturgia sia uno dei punti più alti della letteratura, – posso assicurare che invece, per una serie di motivi formali che non starò qui  a precisare, prediligo  leggere  teatro.

Allora perché la lettura di tanti testi di autori contemporanei, pur cogliendo la valenza dell’incipit,  finisce – tranne eccezioni –  prima o poi per farmi tediarmi? Per rispondere a questa domanda mi appello alla regola dei  <4 Perché> della drammaturgia: si tratta di una regola che solitamente applico nel mio lavoro e che volentieri disvelo ai miei amici e colleghi affinchè, se credono, ne facciano buon uso.

Nella prefazione de La vita intensa  del 1919 Massimo Bontempelli si domanda  “e allora per chi e perché scrivo questo romanzo?  Lo scrivo per i posteri. Lo scrivo per rinnovare il romanzo europeo. Questa duplice dichiarazione non deve maravigliare. Uno che scrive un romanzo, e ci mette la prefazione, non può assolutamente dichiarare meno di tanto.”

Prende allora spunto dalla sfida letteraria di Bontempelli per allargare il suo quesito e porre un problema generale: perché si scrive?  Questo primo perché può sembrare fin troppo ovvio, e  probabilmente lo è, ma rappresenta lo <start up> di ogni forma di arte in genere, e di drammaturgia in particolare, –  essendo il teatro una forma d’arte mediatica rivolta non alla comunicazione tra individui singoli, ma fondata sulla creazione di un <pubblico>, ovvero di una <comunità>. Non entro in dettagli storico-estetici, dico solo che l’autore di teatro non deve pensare di scrivere per se stesso, ma per la sua comunità. Deve quindi originariamente porsi il <suo scopo>. Voglio intrattenere il pubblico? Rappresentare un problema su cui tutti sono chiamati a farsi un’opinione? Intendo forse con la mia opera cambiare la società?  Svelare i segreti dell’Essere? –  Come si vede gli scopi che un autore puó darsi sono molteplici, e ad ognuno di essi corrisponde un genere teatrale. Avendo chiaro il proprio scopo, l’autore avrà anche ben definito il genere di teatro in cui agisce e quindi raggiungere formalmente una <linea> narrativa, ovvero uno <stile>. Senza la chiarezza necessaria su questo atto preliminare di ogni forma di scrittura teatrale, l’autore rischia di sconfinare ora in uno stile, ora in un genere, ora in una forma che  si sottraggono sfuggendo al <piano> narrativo e al controllo dell’autore. E non mi si dica che esiste un <genere transgenere>, una forma che accorpa e mischia tutte le forme in un minestrone. Conosco bene Esercizi di stile, che è appunto una magistrale lezione sul rischio che la <mancanza di uno stile>, cioè di uno scopo, possa rendere il copione appunto un mero, quanto inutile,  esercizio formale: un uovo svuotato del suo contenuto.

Al primo perché sono collegati, a cascata, altri tre punti: per chi si scrive? Cosa si scrive? Come si scrive?

Diamo per scontato che l’autore nel momento in cui si mette all’opera abbia già davanti a sè il <suo> pubblico, ovvero il <proprio target>. I pubblici sono diversi e difficilmente mescolati tra loro. Un pubblico televisivo, popolare, non sarà mai uguale ad un pubblico di studenti liceali per una recita scolastica. Un pubblico di critici si differenzierà da un pubblico  <borghese>. Certo, mi si potrà rispondere: non c’è più nessun pubblico che vada a teatro spontaneamente, quindi, essendo il mio pubblico costituito da miei amici e conoscenti, e qualche parente portato a forza a teatro, posso scrivere quello che voglio. Questa considerazione, non priva di validi quanto tristi argomenti, è peró un’arma a doppio taglio: perché un pubblico di amici lo capisce al volo che il testo che non ha scopo,  lo <scopo dell’autore> di cui parlavo poc’anzi, non ha neppure un suo pubblico. Quindi il pubblico, anche quello composto da amici e parenti, si chiederà insoddisfatto come Chatwin: che ci faccio qui?

Terza questione, anch’essa collegata al discorso del primo perché, è quella del <contenuto>: cosa scrivere? La questione contenutistica è stata spesso e volentieri relegata nell’ambito dell’impegno. Un testo sarebbe dunque <engaged> quando esprime una problematica. La <cosa>, la questione posta dal testo è ad esempio <la mafia>, oppure la <violenza sulle donne>? Ed ecco, solo apparentemente, risolta la questione contenutistica che verrebbe a giustificare l’operazione drammaturgica. Ma le cose anche in questo caso non stanno così. Al drammaturgo infatti non si chiede di giustificare la sua opera nell’ambito di una meritoria rappresentazione di questioni o emergenze sociali, bensí di sostenere l’argomento trattato, la <cosa> del testo,  ovvero il suo contenuto,  appunto drammaturgicamente. E quando dico   <drammaturgicamente> mi riferisco al piano narrativo, prendendo in prestito il concetto dalla letteratura. Perché anche, anzi soprattutto il teatro è una narrazione: il testo teatrale deve far insorgere, in me lettore, oltre all’interesse per l’argomento, anche la tensione per  il suo <sviluppo> da soggetto iniziale  in vera e propria sceneggiatura.  Alla fine di ogni scena, addirittura battuta dopo battuta, il testo deve provocare la curiosità del lettore secondo la regola fosteriana dell’e poi?.  Quindi ogni passaggio del copione deve essere necessario, tanto che come lettore io possa sostituirmi all’autore con un processo inconscio che mi induca a  sapere la battuta successiva in anticipo: perché non può essere altra che quella, perché quella è allora <necessaria> ovvero <urgente>.

Come si può facilmente intuire questo discorso porta con sè la questione del <come si scrive>.  Su questo punto, sulla forma, ha scritto tanto  – e giustamente –  Pirandello;  non mi sento qui di ripeterne la lezione. Basti sapere che l’autore ha la necessità, l’urgenza ancora una volta, di costruirsi una propria forma drammaturgica, – e quando dico forma non  mi riferisco solamente allo <stile> che è solo un aspetto della forma. Come uso il palcoscenico? Che novità formali invento per dare una nuova forma ad un contenuto, alla materia  che dalla vita passa alla rappresentazione?

Tornando alla domanda iniziale del come mai tendo alla noia leggendo drammaturgia italiana contemporanea, ecco che posso darmi una prima soddisfacente risposta. I testi – tranne ripeto eccezioni – difettano  in  tutti e quattro i suddetti punti, oppure assolvono alla loro funzione solo parzialmente,  nascendo già  nel primo caso, o rendendosi strada facendo,  inutili –  anzichè <urgenti> e <necessari> come ho sin qui accennato.

Enrico Bernard

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