Intervista a Donatella Massimilla. “Re-esistere, re-inventare un teatro apparentemente povero ma ricchissimo e assolutamente necessario.”

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Donatella Massimilla, regista, drammaturga, attrice è una donna che ha sempre il sorriso sulle labbra e perennemente animata dal fuoco della passione, per tutto quello che fa e te lo trasmette all’istante, apertamente, onestamente. Con un sorriso, appunto, per cominciare. Ci troviamo a un caffè di un quartiere multietnico di Milano, pieno di vita, colori, sole, e iniziamo così a parlare, proprio come farebbero due amiche, donne, colleghe.

D: Sei una passionaria, Donatella, come l’Ibárruri, l’attivista spagnola detta appunto la Pasionaria. Ci sono delle donne che ti hanno ispirato?

R: Ti parlerei di una nonna materna che ha cresciuto tante figlie e che purtroppo ha perso l’unico figlio maschio. Viveva in Calabria, nella comunità rurale Arbëreshë fatta di emigranti greco albanesi arrivati nell’Italia meridionale nel ‘500. Il nonno, sindaco comunista, era anche maestro elementare, insegnava italiano e arbëresh, la nonna cresceva le tante figlie e accresceva il potenziale della comunità aiutando la gente non solo a coltivare la terra ma anche a condividere, nella grande cucina dove si ritrovavano spesso venti, trenta donne, pranzi, cene e la preparazione delle conserve. Il ricordo e l’esempio della nonna Amalia hanno contribuito a rafforzare in me il desiderio di poter essere importante per una comunità e se così avviene, allora la comunità è in grado di restituire, proprio per questa idea di condivisione. Io ho sempre lavorato, partendo da quelle che io chiamo bios-grafie, straordinarie e non, alle drammaturgie che poi hanno dato vita ai miei spettacoli. Avendo fatto un viaggio molto lungo in Messico, sulle tracce di Frida Kahlo e avendo conosciuto i Los Fridos, gli allievi di Frida, insieme all’attrice spagnola Olga Vinyals Martori con cui avevo fondato la mia prima associazione a Milano, molto prima del CETEC, direi che Frida mi è rimasta sempre nel cuore. L’ho conosciuta intimamente attraverso le pagine del suo diario in un momento in cui non era ancora stato pubblicato. Ci fu poi chiesto, a me e alla mia attrice spagnola, di collaborare alla traduzione per interpretare meglio alcuni aspetti della vita di Frida, donna che ha sofferto, patito, amato, trasformato il suo dolore in qualcosa di unico, restituendo a ognuno di noi la possibilità di riviverla e interpretarla. Questa è l’eredità delle grandi donne del passato: lasciare opere che possano essere rivissute e fatte proprie e in cui ci si possa ri-conoscere.

Il Nuovo Teatrino delle Meraviglie _Corriere_dello_SpettacoloD: Per te il teatro è sogno? Pensi che la gente abbia bisogno di sognare? E qual è quello tuo più grande?

R: Sicuramente il teatro appartiene alla sfera dei sogni, la gente ha ancora assolutamente bisogno di sognare. Ancor prima dell’aspetto inconscio del teatro, Shakespeare scrisse nella Tempesta che “siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”. Mi sembra molto importante l’aspetto del rito che è alle origini del teatro, un rito originario che è frutto di culture diverse, gesti semplici, messe in gioco dal punto di vista del corpo come strumento dando vita ad azioni sceniche trasformative per le persone. Ho detto questo perché per me fu illuminante, durante un corso di antropologia teatrale tenuto da Jerzy Grotowski all’Università della Sapienza di Roma, vedere uno dei primi video dell’antropologa Margaret Mead su danza e possessione a Bali. Per me quel video, quella condivisione, quella guarigione di donne possedute, che molto ricordano le donne tarantate descritte da Ernesto De Martino, mi hanno segnato profondamente nel significato antico, ancestrale, rituale che il teatro può avere.
Il mio sogno più grande? Poter vedere riconosciuto il lavoro di tanti artisti invisibili che lavorano in luoghi “altri” e che hanno fatto delle scelte per una missione e non una “mission”, come dico io. Grotowski diceva che si fa teatro “per la fame, non per la fama” ed io, devo dire, ho incarnato abbastanza questo motto del mio maestro. Ora la cosa importante è riuscire a sfamare, passando il testimone alle nuove generazioni perché non si perda la memoria. Mi sono sempre impegnata e continuerò a farlo perché questa pedagogia fatta di rivoli di fiumi invisibili possa confluire in un grande fiume che continui veramente ad alimentare, scorrere e dissetare.

D: Tu sei stata l’ideatrice e la fondatrice, nel 1999, del CETEC (Centro Europeo Teatro e Carcere). Com’è nato questo progetto e perché?

R: Il CETEC è una cooperativa sociale. Prima del CETEC con Olga, che conobbi a Milano, lei faceva la scuola dell’Arsenale, fondammo un’associazione culturale, Ticvin Società Teatro. Avevamo avuto un incontro molto forte in occasione di uno spettacolo ispirato al “Decameron delle Donne” di Julia Voznesenskaja che aveva descritto, con una metafora felice, una condizione d’isolamento. Julia raccontava di un reparto maternità all’interno di un ospedale di Leningrado, dove delle donne erano state ricoverate per una strana infezione della pelle. In realtà lei parlava della sua esperienza nel Gulag. Da questo spettacolo, precedente a quello su Frida Kahlo, mi venne l’idea di andare a lavorare a San Vittore. Dopo tanti anni di lavoro in carcere, ci siamo rese conto che la forma della cooperativa sociale poteva offrire possibilità di reinserimento occupazionale a uomini e donne con cui lavoravamo. Siamo presenti nel mondo del carcere con un progetto di qualità, a noi non interessano i grandi numeri, interessano le persone con cui veniamo in contatto e condividiamo una formazione anche estesa nel tempo. Ci dà molta soddisfazione avere nella nostra “Compagnia CETEC Dentro/Fuori S. Vittore” attori, tecnici, cuochi per la nostra ApeShakespeare che è la prima Apecar che fa teatro e cibo di strada. Non è poi importante sapere chi tra loro era detenuto e chi no, si va oltre nel momento in cui si è fatto un certo tipo di percorso.

D: Quali difficoltà hai incontrato, se ce ne sono state, nella sua realizzazione?

R: Le difficoltà s’incontrano sempre, soprattutto se vuoi lavorare sui piccoli numeri e fare progetti qualità. Per noi è sempre stato importante non vendere sogni ma realizzare piccole utopie con progetti mirati sulle persone. Ci s’imbatte in ostacoli soprattutto quando sul piano politico ti vengono chiesti i grandi numeri, quante persone hai inserito in un anno, quanto nuovo pubblico hai avvicinato. Grotowski diceva che si può fare spettacolo anche per una persona sola, basta che sia quella giusta e in questo io sono rimasta grotowskiana, in una società fatta di misuratori, report, questionari. L’importante è che le persone che hai realmente incontrato diventino testimoni attivi. Ho la fortuna di fare un tipo di ricerca artistico teatrale come nel caso de “Il Nuovo Teatrino delle Meraviglie” operina buffa liberamente ispirata all’intermezzo di Miguel de Cervantes, capace di incontrare anche grandi pubblici, proprio perché questo modo di fare teatro, questa commedia dell’arte contemporanea, diventa immediatamente popolare e riporta il teatro alla sua essenza di incontro e di comunità.

Il_Nuovo_Teatrino_delle_Meraviglie_Corriere_dello_Spettacolo Milano OffD: So che ti piacciono le sfide. Parlami allora del nuovo progetto chiamato ALTERMUSA.

R: Questo nuovo progetto nasce in collaborazione con l’Edge Festival, festival europeo che ho importato da Cambridge tanti anni fa e che tornerà a essere fatto anche a Milano, il prossimo maggio e la cui caratteristica è di essere una rassegna di teatro delle diversità. Il prossimo anno avrà una grande edizione sotto la dicitura “Teatri oltre le barriere” che ci permetterà di vedere spettacoli fatti da compagnie “altre” come per esempio da Altermusa, associazione che ho fondato con Riccardo Vannuccini e dove collaborano altri colleghi come Maria Cinzia Zanellato, Antonio Turco, Patrizia Patrizi e Margaret Rose. Anche loro lavorano con migranti, rifugiati e in altri penitenziari d’Italia o insegnano all’Università come nel caso di Margaret. Questa nuova associazione servirà a fare il punto sul teatro e le arti sceniche che danno spazio alle diversità e che si occupano della rigenerazione della popolazione detenuta.

D: Cosa chiedi a chi lavora e collabora con te?

R: Direi che io non chiedo nulla, sono le persone motivate che chiedono di seguire i nostri progetti. Ogni anno noi facciamo tre o quattro tesi di laurea sul nostro lavoro. Sono persone che sanno di lavorare in realtà difficili ma lo fanno con entusiasmo e passione.

D: Con chi ti piacerebbe lavorare o collaborare?

R: Vorrei fare un progetto negli Stati Uniti, il prossimo anno, un coast to coast da New York a Los Angeles, città dove ci sono già realtà con cui collaboriamo e a cui siamo legati non solo per il teatro e il carcere, ma anche per altri progetti di inclusione sociale.

D: Qualche volta ti sei sentita “abbandonata” o, come una specie di Don Chisciotte, hai lottato contro i mulini a vento, nella fattispecie le istituzioni, la miopia dei politici, la burocrazia, i pregiudizi, le difficoltà?

R: Molte volte nel mio percorso ci sono state fasi difficili, ma il fatto di avere avuto sempre un progetto, una visione ampia, oserei dire anche un progetto di vita, un inguaribile spirito ottimista e questa capacità un po’ da araba fenice di risorgere sempre, mi ha permesso di superare le difficoltà. Poi devo dire che ho avuto la fortuna di incontrare molte persone valide con cui mi sono trovata in sintonia.

D: Mi piace molto la tua definizione di “teatro d’arte sociale”. Spiegala ai lettori.

R: Proveniamo io e molti dei pedagoghi artisti che collaborano con me, dal teatro, da ambiti professionali per cui il fare teatro d’arte, che nella mia accezione è un teatro artigianale artistico, significa approfondire in una sfera sociale e in un ambito molto particolare quello che è la nostra capacità artistica e pedagogica. Il nostro impegno è far sì che questo modo di fare teatro abbia la forza di uscire dai luoghi invisibili e quindi di avere una ricaduta sociale molto forte.

D: Tu lavori con le donne recluse. Che rapporto hai con loro? Ti senti più protettiva, responsabile, amica o maestra nei loro confronti rispetto all’approccio che hai con le donne “libere”?

R: Il lavoro con le donne recluse è molto diverso da quello con gli uomini perché è differente soprattutto il tipo di detenzione. Interessante è che anche i miei collaboratori mi fanno notare che a volte mi vedono più protettiva, più amica nei confronti delle attrici recluse rispetto appunto alle colleghe “libere”. Però devo dire che è una forma di maternage un po’ spontanea, che viene però assolutamente contrastata nel momento in cui mi rendo conto che le persone se ne approfittano. Nel senso che se esiste un rapporto assolutamente vero e trasparente non c’è bisogno di dare di più. O se ciò accade, lo si fa in momenti particolari, senza dimenticare mai che le persone che vivono in condizioni di sofferenza sono costrette a uno stato di negazione dell’affettività, del corpo e dei sentimenti. Molte donne vengono da altri Paesi, passano anni in carcere senza conoscere la nostra lingua e hanno i loro affetti molto lontani. Il nostro lavoro è quello di rendere questo tempo sospeso un tempo utile. Il teatro è un’arte trasformativa, trattamentale, utile e necessaria di per sé. Se il teatro è fatto bene è terapeutico e catartico.

D: Che rapporto hanno tra di loro le attrici detenute che fanno teatro con te? Quelle che si avvicinano al teatro da cosa sono spinte? Una volta uscite e avendo imparato, all’interno del carcere, un mestiere, pensi che troveranno un’occupazione?

R: Fra loro e con noi si crea un rapporto privilegiato, fatto di ore e ore di lavoro condiviso che si spinge anche sulle riscritture dei loro vissuti e quindi chi si era spinto o avvicinato con la voglia di riempire semplicemente un tempo libero, in realtà poi capisce che quel tempo è diventato un tempo trasformativo in grado di creare un legame speciale. Quando escono, sanno che noi ci siamo, anche fuori, e se possiamo, offriamo loro, per periodi più o meno lunghi, delle possibilità occupazionali, come facciamo, per esempio, con due delle nostre attrici e cuoche impegnate a livello continuativo con il progetto dell’ApeShakespeare.

D: Cosa ricordi di più di Grotowski come maestro e come persona?

R: Quando avevo quindici anni ho letto, per conto mio, “Verso un teatro povero” e poi ho visto “Apocalypsis cum figuris” a Roma e in seguito ho avuto la fortuna di averlo come maestro. È stato un percorso di avvicinamento a tappe sia come maestro sia, poi, per il bellissimo rapporto a livello personale che si è venuto a creare. Lo avvertì anche quando si rese conto che io avevo fatto una scelta di vita diversa rimanendo a Santarcangelo di Romagna, dove lo avevo seguito, dopo Roma, e dove ho lavorato per sette anni. Grotowski per me è stato un vero Maestro e me lo dimostrò proprio quando mi lasciò “libera” di fare la mai strada. Mi ricordo molto il nostro abbraccio, di cui rimangono delle foto, che io purtroppo non ho, e il suo sorriso quando gli dissi “Non ti seguo, io rimango qui”. Aveva intuito che avevo trovato la mia strada. Poi negli anni successivi lo rincontrai. A proposito lancio un appello a quel fotografo che immortalò il nostro abbraccio perché mi piacerebbe avere quelle foto di me e di Jerzy.

D: Pensi che i suoi insegnamenti siano ancora validi e attuali o che il teatro sia diventato per molti una vetrina, un mezzo per “esserci”, rinunciando a sacrifici, lavoro, sangue e lacrime?

R: Assolutamente sì, i suoi insegnamenti sono ancora importanti, validi, necessari per chi voglia fare un teatro di un certo tipo. Per mancanza di tempo non riesco a seguire quanto vorrei il lavoro dei miei colleghi, però non credo che lo facciano come vetrina, il teatro fa bene sempre e comunque e se alla base c’è un lavoro artigianale artistico ha tutto il mio rispetto. Ricordo la mia esperienza con Eduardo De Filippo a Roma, lui faceva ditta, faceva famiglia, compagnia, un teatro diverso da quello che io professavo o andavo cercando, ma era un teatro di grande qualità che ha lasciato dei segni profondi.

Apecar_Corriere_dello_SpettacoloD: E il cinema? Ne hai fatto, ne farai? Dimmi un film che non smetteresti mai di rivedere.

Amo moltissimo il cinema, ho sempre avuto relazioni di interscambio con amici cineasti, ho collaborato ad alcuni progetti intermediali tra cinema e teatro, dedicati in particolare a Pasolini, uno dei miei autori preferiti, quindi devo dire che uno dei film che non smetterei mai di rivedere è “Che cosa sono le nuvole?”. Ho lavorato come attrice in film d’autore e quello che mi ricordo con più amore, come un amore di gioventù, avevo infatti diciotto anni, è il corto di Fulvio Wetzl “Guardarsi nello specchio degli altri” che vinse il Filmaker Festival di Milano nel 1982. Nel film c’ero io che guardavo il film di Malle dove la Karina guardava il film di Dreyer “Giovanna d’Arco”, una specie di scatola cinese. Io ero la protagonista e devo dire che è notevole la mia somiglianza con Anna Karina. Fu il mio primo incontro con la macchina da presa. Se mi offrissero il ruolo giusto mi piacerebbe tornare a recitare perché comunque io nasco come attrice, a quindici anni, quando debuttai al teatro Ringhiera con il regista Franco Molè.

D: La tua poetessa preferita.

R: Chi mi conosce la sa…

D: Io lo so… dillo a chi non ti conosce, Donatella.

R: La Merini, per motivi personali. Io e le donne di San Vittore ci siamo sentite sempre parte della sua famiglia. Primo perché Alda veniva alla biblioteca di San Vittore a raccontarsi, a fumare, a incontrare le donne recluse e poi perché abbiamo portato le sue figlie a vedere i nostri spettacoli a lei dedicati.

D: Ti ricordi il primo spettacolo che hai visto a teatro?

R: Mio padre mi portava spesso a teatro, anche lui lo aveva fatto, da giovane. Non posso dimenticare l’“Enrico IV” con Salvo Randone, “Il giardino dei ciliegi” diretto da Strehler e “La Classe Morta” di Kantor. Sono spettacoli che visti nell’adolescenza ti segnano a vita e forse ti indicano anche quale sarà il tuo percorso futuro.

D: Se non fossi la donna che sei, quale donna vorresti essere?

R: Sicuramente vorrei essere sempre una persona migliore, io che per anni ho saputo conciliare famiglia e lavoro, pur facendo teatro. Ora sono tornata una donna libera ma con una grande consapevolezza di quanto sia stato importante essere una donna completa, sul piano affettivo e lavorativo e soprattutto non ho mai fatto rinunce. Fare la regista è un lavoro particolare e lo fanno in poche, forse per questa difficoltà di poter conciliare vita privata e vita pubblica.

D: Tu sei romana, ma abiti a Milano. Si vive e si lavora bene qui? Pensi che questa città ti abbia dato chance maggiori che la capitale?

R: Sono venuta a Milano in anni in cui sentivo molto forte la sua vocazione europea, già venticinque anni fa. Sin da allora, in quella prima fase milanese, ho lavorato a molti progetti europei. Poi, per motivi personali, familiari, sono tornata a Roma e poi di nuovo a Milano, lasciando nella mia città natale tutte le difficoltà di concretizzare le progettualità e credo che tuttora queste problematicità rimangano. Ho molta fiducia in questo ritorno di Milano a una dimensione internazionale.

D: I tuoi prossimi spettacoli dove potremo vederli e quando?

R: Saremo protagonisti dell’Estate Sforzesca 2016 di Milano, il 15 e 16 agosto con due spettacoli: “Quando il cinema è dal vivo” e “Il Nuovo Teatrino delle Meraviglie”. Li ripeteremo anche il 17 e il 19 all’Arena Centro Eventi Il Maggiore di Verbania. Poi abbiamo due progetti dedicati a Shakespeare durante BookCity tra novembre e dicembre e al Piccolo Teatro Studio Melato faremo il punto sulle nuove drammaturgie riscritte a partire da opere shakespeariane. Inviteremo, tra l’altro, Wesley Zurick da NY. Si tratta di un giovane drammaturgo che ha riscritto dal Tito Andronico, per la nostra compagnia, un corto teatrale intitolato “Meat Pie” e che faremo al Teatro Franco Parenti durante BookCity. A dicembre, come vi dicevo, ci sarà il “San Vittore Globe Theatre – Atto II” al Piccolo Teatro di Milano, una riscrittura fatta con le attrici recluse da “La Tempesta” di Shakespeare. Questo progetto “Shakespeare In & Out” si avvale della collaborazione di tanti soggetti, dal Comune di Milano alla Fondazione Cariplo, per sostenere l’ampliamento della nostra cooperativa e per dare maggiore forza al reinserimento lavorativo delle nostre attrici detenute. Abbiamo anche una sede operativa in una scuola sui Navigli, a Via Pestalozzi, dove di solito teniamo la nostra ApeShakespeare per fare merende biologiche per i bambini e animazioni teatrali e culturali. Quello che ci ha insegnato il nostro lavoro d’arte sociale è che a partire da un autore universale come Shakespeare il nostro mondo dentro/fuori può veramente andare a incontrare pubblici diversi, di tutte le età, per essere un esempio di legalità, di cultura, per far tornare nella società, come dei tutor fantastici, i nostri attori e attrici ex detenuti, reinserendosi in una città come Milano, dal centro alle periferie.

D: Lasciaci con una parola di speranza, nonostante tutto quello che ci circonda, detta da una donna che lotta sempre con il sorriso sulle labbra colpirà nel segno.

R: Re-esistere, re-inventare un teatro apparentemente povero ma ricchissimo e assolutamente necessario.

Ci lasciamo con un sorriso e un abbraccio. Sono sicura che un giorno qualcuna o forse molte di quelle donne cui verrà chiesto chi ha ispirato la loro vita, risponderanno: Donatella Massimilla.

Daria D.

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