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Intervista ad Antonella Moscati: il delirio della scrittura

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Antonella Moscati, scrittrice e traduttrice del filosofo francese Jean-Luc Nancy, è intervenuta il 4 Maggio scorso all’interno del Festival delle donne e dei saperi di genere tenutosi a Bari dal 14 Aprile al 6 Maggio. Il dialogo dal titolo “La fertilità del linguaggio. Incontro con Antonella Moscati e i suoi racconti” è stato animato da Lea Durante e Antonella Lella, con lettura di brani dai libri dell’autrice ad opera di Clarissa Veronico.

L’intervista che segue ci restituisce le vene di quell’incontro, denso di esperienza personale e della scrittura col corpo che non rifiuta il balbettio e il disorientamento degli episodi psicotici vissuti in passato. La morte e il senso delle donne per la vita, la sessualità e il raziocinio, il corpo di tutti e di nessuno, sono i riferimenti per lasciarsi guidare nella lettura del suo scritto “Deliri” (Nottetempo, 2009) su cui ci è piaciuto soffermarci. L’autorità dell’autrice pressava su ogni desiderio di fuga dal delirio.Il racconto degli episodi psicotici vissuti in passato e curati con neurolettici e psicoterapia è stato vibrante. Ancor di più il riferimento a dei movimenti, a delle parole – assolutamente quotidiane – di suo padre, mi ha fatto riflettere sulle proprietà della “mozzarella dura in forno” che l’hanno fatta guarire da punte di delirio. La “trivialità” è salvifica? A cosa si era anestetizzata fino a quel momento, secondo lei?

No, non è la trivialità a essere salvifica, lo è semmai la quotidianità, o meglio il fatto che la vita continui a scorrere per il suo verso e con il suo verso. Ma non perché la quotidianità sia salvifica in sé, anzi. Ne conosciamo fin troppo bene la psicopatologia o le psicopatologie, piuttosto in un momento di delirio psicotico la quotidianità viene interamente risucchiata nell’emergenza, nell’iperproduzione di senso, nello slargarsi della contemporaneità che turba completamente il normale scorrere del tempo. Quello che è salvifico è il fatto che l’attenzione – nel delirio generalmente tutta assorta in sé e dimentica di ciò che accade intorno – venga captata per un momento e distratta da qualcosa che è fuori. È questo che, a mio avviso, interrompe il delirio, restituendo per un momento la “normale” o “quotidiana” relazione con lo spazio e il tempo.

L’uso della prima persona e della terza persona nel racconto di sé è stato un altro fulcro della conversazione del 4 maggio all’interno del Festival delle donne e dei saperi di genere di Bari: la memoria, dunque, non sarebbe registrazione ma sempre “nuova vita”?

Anche quando ricordiamo, e soprattutto se cerchiamo di mettere i ricordi    in parole o scrittura, i ricordi si trasformano, si affinano o si distorcono, si aggiungono e si spezzano. La lingua e la scrittura trasformano i ricordi o aiutano i ricordi a trasformarsi. I ricordi, così come la memoria, sono una materia mobile, liquida o gassosa, che prende forme diverse secondo i suoi contenitori. Quante volte, scrivendo, cerchiamo di imprigionare un ricordo che ci pare estremamente nitido e poi rileggendo ci accorgiamo di aver descritto qualcosa di molto diverso da quello che avevamo in mente. Le forme, i mezzi espressivi, e l’espressione in genere, si riflettono su quello che un tempo veniva chiamato contenuto. Perché appunto i contenuti, ammesso che possiamo ancora chiamarli così, non sono mai materia inerte. E questo vale ancor più per i ricordi. La scelta della prima o della terza persona, ma anche della seconda o della prima plurale ecc., la scelta insomma della persona/io narrante, almeno nel mio caso, non è mai una scelta. È una scelta, cioè, che si fa da sé, e dipende appunto da quella materia liquida che si dà in una forma determinata che si affaccia subito, non appena cominciamo a scrivere. E talvolta questa scelta si fa anche mio malgrado. Ho cercato varie volte di scrivere in prima persona quello che sarebbe diventato Una quasi eternità, anche perché oggigiorno sembra curioso scrivere qualcosa di evidentemente autobiografico in terza persona. Ma è stato letteralmente impossibile.

Tornando brevemente sul discorso della psicosi, ritiene che la carnalità attutisca o amplifichi l’autonomia del linguaggio? Che valore assegna a quest’autonomia?

Sicuramente la dimensione del corpo limita l’autonomia del linguaggio e soprattutto il suo strapotere, uno strapotere che misuriamo proprio nel delirio. Il corpo si perde sempre nel linguaggio, nel doppio significato del perdersi: nel linguaggio perdiamo il corpo e il corpo si perde nel linguaggio, nel senso che vi si abbandona. Ma il linguaggio, e ancor più la scrittura, è anche carne: nel delirio provavo un piacere e un sollievo a pronunciare certe parole, così come nella scrittura mi piace proprio scegliere le parole per il loro carattere materiale, per il loro suono, per il loro aspetto. L’autonomia del linguaggio mi fa paura, così come mi fa paura perdermi nei labirinti del senso, mentre sono affascinata dal linguaggio incarnato, da parole pronunciate o scritte che prendono un andamento, un ritmo, un colore.

Corriere_dello_SpettacoloLa concezione spirituale e la maternità mi è sembrata una sorta di binomio, di strada senza ritorno da lei tracciata nel dialogo sui suoi testi e la filosofia. Dove si riscontra la “totalità del desiderio” – da lei stessa richiamata – e esiste un’amputazione vitale? E’ possibile, da donne, ‘tagliare’?

Non so se l’amputazione sia vitale. Direi piuttosto che talvolta è necessaria, perché un desiderio troppo intenso e totalizzante può paralizzare. O girare a vuoto su stesso. Le donne tagliano spesso, anche se hanno forse più difficoltà degli uomini a rinunciare. E anche se rinunciano, se sono costrette a rinunciare, dimenticano raramente ciò a cui hanno rinunciato.

Particolarmente coinvolgente è stata la sua disamina del suo delirio alla luce del suo retroterra meridionale, il ricordo di pezzi di Vangelo derivanti dalla sua educazione religiosa da adolescente e della consuetudine di associare nomi con santi e numeri, diffusa nel Sud in maniera forse specifica. Qual è il delirio impossibile nella cultura meridionale?

Questa è una domanda cui mi è difficile rispondere. Perché non sono uno psichiatra. Mi ha sempre colpito come le persone delirino in maniera per così dire “geografica”: i tedeschi finiscono sempre per delirare su Hitler, gli italiani su Gesù di Nazareth. Ma sono anche gli unici casi che conosco da vicino. C’è poca letteratura su questa questione che è invece interessantissima. Se dovessi avanzare un’ipotesi, direi che è difficile nel Sud delirare nella forma di un rigido monoteismo: la figura di Dio si moltiplica subito, ed è qui che i santi e i nomi dei santi vengono in aiuto.

Il rapporto fra la necessità biologica del sonno e il delirio sembra essere un interessante spezzone della sofferenza nel suo libro “Deliri” … come descriverebbe il mondo in eterna veglia?

Come un mondo perennemente eccitato, in cui la stanchezza, o meglio la spossatezza, non trova requie. La spossatezza degli insonni è una stanchezza per così dire instancabile, incessante e nervosa. Ma, oltre a questo, c’è anche una vera e propria alterazione della percezione: quando non si dorme, quando non si dorme per più giorni, o meglio per più notti, cambia il nostro modo di percepire gli oggetti e le persone che ci circondano. È una percezione sfocata e ipersensibile allo stesso tempo, come se tutto fosse troppo vicino o troppo lontano. Quando non dormiamo, ci trasciniamo attraverso un mondo in cui le cose o non ci toccano o ci toccano troppo. L’alternanza di sonno e veglia mette le cose alla giusta distanza, ed è questa giusta distanza che rende possibile la percezione “normale”.

A proposito delle tautologie ricorrenti durante i suoi episodi psicotici e, in particolare, all’ “amare l’amore” e al significato letterale del linguaggio: si può pensare in questo caso a qualcos’altro che non sia il “fare l’amore fisico” o il desiderio di corpo, del corpo dell’altro?

Vorrei fare una premessa prima di rispondere alla sua domanda. Questa premessa riguarda le tautologie e l’uso che ne facevo durante il mio primo episodio di delirio, parlo soprattutto del primo episodio, perché negli altri episodi le tautologie non erano più così importanti. In generale, si potrebbe dire che le tautologie mostrano il potere del linguaggio e soprattutto la sua capacità di poter astrarre dai referenti, cioè dai contenuti non linguistici che cerchiamo di esprimere attraverso il linguaggio. È per questo, credo, che esse si presentano alla mente nel caso di un delirio psicotico che, almeno nel mio caso, era un’esperienza estrema del linguaggio, dove, mi sentirei di dire, le parole tendevano a diventare carne, corpo. Da questo punto di vista, potrebbe anche essersi trattato di un’esperienza isterica, travestita da delirio psicotico. Ma questo comunque conta poco. Nel caso di una tautologia, nel caso, per esempio, di una frase del tipo “il cavallo è il cavallo”, è evidente che se la ripetiamo con enfasi, accentuando l’uno o l’altro termine uguale, essa assume un senso specifico, cessando di essere una tautologia. Nel delirio provavo a trovare il senso del linguaggio nell’uso di tautologie che non erano però delle vere e proprie tautologie, immaginate, direi, sul modello di quella nozione filosofica di Aristotele che è il pensiero di pensiero, cioè il pensare il pensiero. Quindi anche “amare l’amore”. Veniamo alla sua domanda. C’è un libro del linguista e filosofo Jean Claude Milner che si chiama L’amore della lingua. Io non credo, però, che si possa amare senza il corpo, almeno senza il proprio corpo. Si può amare qualcosa di incorporeo, questo sì, ma non si può amare senza il proprio corpo. D’altronde non si può fare niente senza il proprio corpo, se non, forse, immaginare di essere qualcosa d’indipendente dal corpo… L’amore è sempre una sensazione fisica. È certo, però, che si può amare qualunque cosa, quindi anche qualcosa di incorporeo. Così come è certo che si può amare qualcuno senza avere il desiderio del suo corpo. Ma spesso in questi casi si ama il proprio corpo attraverso il non-corpo dell’altro. Nel caso dell’amore verso Dio è chiarissimo. Basta pensare alla Santa Teresa del Bernini.

Godimento come dichiarazione di dipendenza e non sentire il corpo ma temere per la propria vita: questa negazione del piacere in sé prodotta dal delirio è la prova della psiche della carne?

Non so se il delirio neghi il piacere in sé. Anzi direi il contrario. Credo anche di averlo scritto, ma nel delirio c’erano sicuramente momenti di piacere estremo, che succedevano o precedevano tremende angosce. C’erano comunque momenti di intenso piacere. Sull’altro punto, ha ragione, era perfettamente possibile non sentire il corpo e temere per la vita. Ma non credo che sia una contraddizione. Una volta in cui sono partita dall’isola di Ponza in aliscafo con il mare forza 7, ho pensato che la paura della morte è un pensiero del corpo sano, perché in quell’occasione avevo un tale mal di mare (io che in genere non ne soffro affatto) che il pensiero che l’aliscafo potesse affondare non solo non mi preoccupava, ma  addirittura mi sembrava abbastanza auspicabile. Secondo me il pensiero della morte, o il temere per la vita, come dice lei, è un pensiero talmente astratto che cessa quanto più sentiamo il corpo: nel bene come nel male, cioè sia nel piacere che nella sofferenza fisica.

A pag.37 di “Deliri” lei descrive il dolore, lo classifica, quasi lo imbratta. Lo dichiara “semplice” di fronte all’altisonanza di alcuni grandi artisti del passato e rivela il suo malessere come inevitabilmente conformistico, in qualche modo: “continuavo a piangere per fedeltà a quella valle di lacrime di cui parla una preghiera alla Madonna”. Ci si può sentire davvero così anonime con se stesse …?

Imbrattare il dolore? Perché? Perché lo chiamo “semplice dolore”? Semplice è per me sinonimo di puro, ma non in senso morale. In senso fisico, cioè “semplice” come gli elementi primari, che nel Medioevo si chiamavano corpi semplici, aria, acqua, fuoco, terra.  “Semplice dolore” significa dolore in cui non si mescola nient’altro, né paura, né angoscia, né volontà di soffrire. Dolore e basta, colto solo come dolore e senza il pensiero o l’immagine della causa che possa averlo prodotto. Piangere in virtù di quel dolore semplice può essere estremamente liberatorio.

Il suo racconto della morte è pervasivo, sempre vista come un assassinio. L’esistenza, allora, è volontà? Era la sua volontà?

Non direi che l’esistenza è volontà. Ma la morte mi pareva un assassinio, perché in un certo senso la vita prescinde dalla morte, va avanti da sé, e per certi aspetti la morte sembra venire dal difuori. Nonostante Freud, non credo alla pulsione di morte, cioè credo alla pulsione di morte come pulsione umana, solo umana o troppo umana, come pulsione linguistica, oserei dire, ma non come pulsione del vivente.

L’eternità fa più paura della morte, lo ha ripetuto spesso all’interno del libro. Mi ha colpito il riferimento cristiano ai sacrifici della vita biologica compiuti senza dolore – mangiare e bere – e che salvano sempre qualcuno (pag.70). Come ha sconfitto l’eternità, sentendo la sua carne e le sue ossa?

Probabilmente c’è sempre qualcosa che fa più paura della morte, anche perché la paura della morte ha un lato concreto, la paura che la vita finisca, e un lato astratto, la paura di qualcosa che non sappiamo che cosa sia. La paura dell’eternità era per me innanzitutto la paura dell’elezione, la paura di essere scelta per qualcosa di cui non mi sentivo capace, e a cui non ero preparata. E comunque ho sempre pensato che l’eternità fosse una dimensione talmente poco umana da apparire terribilmente angosciante. Quanti ai sacrifici indolori, erano un modo per reintegrare la sfera della quotidianità in un orizzonte religioso. Il sacrificio non era qualcosa di lontano e di terribile, di perturbante, ma qualcosa di familiare che avevamo sempre già compiuto e che continuavamo a compiere ogni giorno nelle nostre vite, in modo da santificarle senza sforzo e senza morte. Quanto al mio corpo, quello che lei chiama “carne e ossa”, o meglio alla percezione del mio corpo, che spesso perdevo quasi completamente, intenta com’ero a seguire le pieghe dei pensieri e delle parole, aveva sempre un carattere salvifico, incarnava un qui e ora che interrompeva per un attimo la corsa dei pensieri, riportandomi a uno stato di “normalità”, cioè di percezioni ordinate nello spazio e nel tempo.

Un’ultima domanda: fare figli è potersi pensare sempre in un altro posto del mondo?

Non so risponderle, perché non ho avuto figli. Nel mio immaginario, però, posso dirle che fare figli mi è sempre sembrato riuscire invece a occupare – almeno per un certo tempo – un posto preciso nel mondo. Qui e ora, appunto.

Grazie,

Rossella Traversa

 

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