Venezia, Teatro Goldoni, dal 26 al 30 ottobre 2016
L’omaggio ai quattrocento anni dalla morte di Shakespeare prosegue al Goldoni con Giulio Cesare di Alex Rigola, prodotto dal Teatro Stabile del Veneto. Il regista spagnolo, direttore dal 2001 della Biennale Teatro, già aveva presentato a Barcellona quattordici anni fa il dramma più politico del Bardo. L’allestimento proposto oggi in Italia, in prima nazionale al 68° Festival shakespeariano veronese nel luglio scorso, non ha nulla da spartire con l’antecedente e quasi nemmeno con l’autore. Rigola provoca ed è lecito farlo in epoca contemporanea, ma non sempre, come in questo caso, roseo è il connubio tra originalità e successo. Si assiste a due ore di retorica spiccia sulla contraddizione tra violenza e democrazia. Esiste un potere nonviolento? La difesa dello status quo democratico dall’autoritarismo giustifica l’uso di turpi crudeltà? Sulle note dell’Andante del mozartiano Concerto per pianoforte n. 21, appare su un parallelepipedo bianco, unico elemento scenico, Obama che assiste con Biden e Clinton (Hillary) alla cattura di Bin Laden. Via poi con una carrellata di Merkel, Berlusconi, Trump, Hitler etc etc, mentre dagli altoparlanti esce Sabotage dei Beastie Boys e lupi neri pogano, per chiudere con il piccolo Aylan morto sulle rive di Bodrum. Inizia la tragedia. Words campeggia alle spalle degli attori, a memoria del peso che le parole hanno nella politica, mentre nella seconda parte sarà war a convogliare lo sguardo su un gigantesco mucchio d’ossa sotto cui giace riverso un pupazzo, maglietta rossa e braghette blu come Aylan. Cesare e altri ruoli maschili sono affidati ad attrici, volendo riflettere sulle donne che gestiscono l’autorità determinate al pari dei loro colleghi. Peccato però l’adattamento di Rigola perda passaggi chiave, come la dicotomia tra modello simbolico e modello sintagmatico del potere, che abbreviano ulteriormente la presenza in scena dell’imperatore, vanificando così la questione di genere in mera frivolezza. Troppe domande, troppi concetti lanciati e mandati alla ribalta, quanto gli attori che recitano la battaglia di Filippi davanti a una schiera di microfoni.
Rigola cita se stesso e altri. Lo spazio scenico è simile, se non addirittura reimpiegato, a quello di Glengarry Glenrose, i costumi assieme alle scritte proiettate rammentano Coriolà, dove il neon “Democracy” domina a caratteri cubitali. Cita Ryan Murphy e il suo Hotel durante l’omicidio con proiezioni splatter di carne seviziata. Cita con quel carcame Balkan Baroque, performance di Marina Abramović a denuncia degli orrori commessi durante la guerra nei Balcani, premiata con il Leone d’Oro alla Biennale d’arte 1997. Le elucubrazioni politiche del regista lo impegnano a tal punto da dimenticare l’importanza di un lavoro incisivo con la compagnia, qui abbandonata a se stessa in un disarmante “saggio finale”. Mancano voci e corpi che diano autorevolezza e spessore al testo, scarseggia l’intensità degli sguardi e dei silenzi, latita la capacità di entrare in empatia con colleghi e pubblico. Non sono credibili Stefano Scandaletti, Bruto d’imbarazzante piattezza al limite della noia, Andrea Fagarazzi con la sua dizione ancora sporca, non lo sono Michele Maccagno, Silvia Costa, Francesco Wolf, Eleonora Panizzo, Pietro Quadrino, Riccardo Gamba, Raquel Gualtiero e Beatrice Fedi. Non è efficace nemmeno Maria Grazia Mandruzzato, attrice di lunga data, in vesti da uomo. Tra i maschi, che paiono essere stati scelti più per esporre il fisico che per le doti drammatiche, Michele Riondino è l’unico a sapersi distinguere nei panni di Antonio, capace di trasmettere allo spettatore, nei frangenti della celebre arringa sul corpo martoriato dell’imperatore, qualche profonda emozione in questo dimenticabile Julius Caesar.
Teatro affollato e applausi, prima incerti poi entusiasti, alla recita serale del 29 ottobre.
Luca Benvenuti