“Sully”, l’ultima opera perfettamente imperfetta di Clint Eastwood

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Sully è il cinema di Clint Eastwood che conosciamo: classico, solido, pulito, cristallino. Coerente con tutte le intenzioni di narrazione che si prefigge, e soprattutto con il fatto di cronaca che racconta. Come accadeva per l’ultimo American Sniper, anche qui il regista americano parte dalla realtà: Chesley Sullenberger è un pilota d’aerei di lungo corso e anni di servizio, che il 9 Gennaio 2009 riuscì a compiere un ammaraggio del suo volo US Airways 1549 sul fiume Hudson, dopo il guasto in volo dei due motori causato da uno stormo di uccelli, e riuscendo di fatto a salvare tutti i passeggeri a bordo. È il cinema che tenta di innalzare l’ordinarietà a qualcosa di straordinario, facendolo paradossalmente dentro una struttura densamente classica di cui oggi il cinema, ma anche l’Arte in generale, piena di guru e profeti (spesso poco credibili) ha un estremo bisogno. Eastwood è l’allenatore di calcio che mette i suoi giocatori nei ruoli giusti, senza far fare l’ala al terzino, o il terzino all’attaccante, il difensore al mediano, e il fantasista trasformarlo in interditore. È il mestierante, che alla fine vince. Sebbene in questo caso specifico non raggiunga i risultati delle sue opere più grandi e memorabili.

Basandosi sulla stessa biografia del pilota, Highest Duty: My Search for What Really Matters, Eastwood racconta ciò che si è nascosto dietro quelle telecamere e quei giornali che fin da subito hanno messo al collo di Sully, così affettivamente chiamato, la medaglia dell’eroe, come del resto hanno fatto tutti i cittadini, rivestendolo di una fama immediata e quasi scomoda per la natura riservata del protagonista. Quindi le sequenze drammatiche del volo e del salvataggio si intersecano con l’indagine condotta per accertare la causa dell’incidente e le responsabilità del comandante nell’attuare una manovra così avventata. Domande che, seppur legittime, inficiano l’umanità che sta dietro a determinate scelte, gesti ed azioni, riducendoli a calcoli ipotetici e fredde simulazioni. Domande per capire, per mettere in moto la ragione umana, senza lasciare spazio alla fiducia, per comprendere se quell’uomo, per natura imperfetto, avesse potuto fare meglio ed essere perfetto, senza correre un rischio talmente alto, atterrando in qualche pista lì vicina. Sully allora diventa eroe, ma di quelli fragili, è un eroe che potrebbe restare senza lavoro, e far svanire i sacrifici di una vita per quei 208 secondi antecedenti l’ammaraggio; un eroe così maledettamente umano, e fallibile, lacerato dal dubbio che quelle domande insinuano, dai sensi di colpa che nascono quando la mente riflette a freddo e ripensa, e dalle notti insonni quando si ricorda con disarmante rivelazione di essere anch’egli un sopravvissuto. Il film di Eastwood disturba. Disturba perché ci mostra la sequenza dell’incidente tre volte e da tre punti di vista differenti, perché ci mostra i possibili scenari di schianto che si formano nei sogni e nei pensieri di Sully. Disturba perché incrina le certezze di quest’uomo, scalfisce il suo rigore e la sua integrità, perché mostra l’umanità che non si congratula per il risultato, ma scava per trovare colpe e mandanti, che intende spiegare anche ciò che per logica è inspiegabile, come un “miracolo”. Allo stesso modo anche Tom Hanks disturba perché entra nel personaggio donandogli una credibilità a tutto tondo, rendendolo così reale, tanto che se fosse solamente un personaggio di una storia inventata non ce ne renderemmo conto. Un eroe ordinario che si espone, e rivela che dietro i miracoli ci sono scelte, fatte da uomini, ed anche eventuali errori. Ma non per questo sono un po’ meno miracoli. Restano tali.

Come però lo Snowden di Oliver Stone, anche Sully offre uno sguardo obiettivo e diretto, senza riuscire a drammatizzare la vicenda che espone, caricando il lato documentaristico, dimenticandosi di ampliare quello emotivo, dando corpo a scene e situazioni di pura grandezza cinematografica, e creando storie dentro la Storia, non bozzetti di personaggi (di contorno), sebbene siano bozzetti ben riusciti. E torna subito alla mente un film fratello di Sully, uscito qualche anno prima, Flight di Robert Zemeckis. Approcci diversi, ma medesima analisi sul confine labile che intercorre tra l’essere eroe e l’essere uomo, tra la percezione esterna che si ha di questo conflitto, e quella, ben più profonda e importante, interna, pertinente all’individuo che lo vive. È chiaro, Eastwood non voleva fare un Flight, voleva dimostrare drammaticamente e disturbando, appunto, quanto anche la realtà, così mostrata senza troppi veli e filtri, potesse essere qualcosa di non propriamente autentico, a volte talmente stravolta dalla macchina razionale umana da risultare una dimensione altra. Ma è altrettanto chiaro che a Sully manchi tutta la potenza cinematografica che sprigionano certe sequenze del film di Zemeckis (quella dell’incidente e conseguente salvataggio su tutte), e l’audacia che in quel caso il regista americano aveva dimostrato nel sapere innervare il suo classicismo di percorsi artistici nuovi e profumi autoriali differenti, donando nuova linfa al suo cinema e uno spessore non indifferente al suo film.

Sully è un’operazione raffinata di montaggio di un evento storico e di cronaca; non è allo stesso modo una creazione visiva, e di sguardo. Tutto voluto e non forzato, ma logicamente più freddo e distaccato. Eastwood mostra, senza effettivamente raccontare. Ma lo fa nella sua maniera impeccabile, confezionando un prodotto inattaccabile sotto tutti i punti di vista. Forse avremmo preferito qualcosa di più imperfetto, ma coraggioso da un punto di vista narrativo, di genio, e di trasporto emotivo, a tal punto da risultare semplicemente più umano e meno chiuso in quelle logiche di interpretazione e di indagine, tutti calcoli e rapporti, che hanno inchiodato Sully (il protagonista) e che Sully (il film) cerca a sua volta di inchiodare.

Voto 7 su 10

Simone Santi Amantini

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