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Per le rime. Beatrice risponde a Dante. Saggio lirico-drammatico di Enrico Bernard

Data:

Tanto gentile e tanto onesta pare

la donna mia, quand’ella altrui saluta,

ch’ogne lingua devèn, tremando, muta,

e li occhi no l’ardiscon di guardare

 

Tanto gentile e onesta pare… l’hai scritto tu,

non guardare altrove come se non ci fossi

ché il sangue mi sale alla testa ancor di più

tanto che i capelli biondi mi diventan rossi

come i diavoli a corte del maligno Belzebù

che andasti a visitare facendo gl’occhi grossi

per tutte le sofferenze che si patiscon laggiù

dove gl’animi delicati come il tuo son scossi

e il pianto de’ dannati evocan incubi rimossi.

 

Lo ripeto: colei che tanto gentil e onesta pare,

sarei io, neanche fossi donnaccia di malaffare:

di questa battutaccia sei proprio tu l’autore…

il Sommo Poeta è il mio primo turlupinatore!

 

Che ti è saltato in mente, mi dovrai spiegare,

di dubitare della mia onestà con quel “pare”,

come se volessi dire qualcosa sul mio onore

alludendo magari ad un segreto spasimante

che fa di me misera la sua scatenata amante

dopo avermi fatto negar il senso del pudore.

 

Capisco che dovevi far la rima con “guardare”

che chiude la quartina dopo “la lingua è muta”,

ma spiegami a chi alludi con “quell’altrui saluta”

che mi mette in cattiva luce e mi fa arrabbiare!

Io non saluto chicchessia, non essere volgare:

sappi che questa strofa non mi è mai piaciuta,

anzi visto che mi fa passare per una prostituta

rispondo per le rime alla tua insinuazione bruta.

 

Ella si va, sentendosi laudare,

benignamente d’umiltà vestuta,

e par che sia una cosa venuta

da cielo in terra a miracol mostrare.

 

Non contento di farmi passar per facile donzella,

ti diverti a rappresentarmi come una Cenerentola

“vestita d’umiltà”, magari con in testa una pentola

a mo’ di copricapo. Beh, non sarò una modella,

ma  indosso abiti decenti, non da straccivendola.

 

Mostrasi sì piacente a chi la mira

che dà per li occhi una dolcezza al core,

che ‘ntender no la può chi no la prova;

 

E qui casca l’asino che sei! Non crededere che sia

così sciocca da non capir che con “chi no la prova”

non ti riferisci alla sottoscritta, leggo bene la poesia,

bensì alla dolcezza che a guardarmi il cuore trova.

 

Tuttavia, il verso è costruito non senza furberia:

potrebbe sembrare che per una strana geometria

sia io a dover essere provata come gatta in cova.

Conosco l’arte di trasformar una maschile fantasia

attraverso il dico-non-dico in schiacciante prova

che una donna onesta trascina dritta nell’alcova.

Infatti a questa rima tu ne aggiungi una nuova:

 

e par che de la sua labbia si mova

un spirito soave pien d’amore,

che va dicendo a l’anima: Sospira.

 

Ci siamo, prima m’elevi al rango di colei che ispira

e poi mi sento dire che son peggio d’una vampira

la qual le labbra muove tremolanti e “pien d’amore”

come s’atteggiano le femmine di strada senza onore!

 

Che fai, scuoti la testa? Prendiamo quel sonetto

famoso che s’intitola: “donne ch’avete intelletto

d’amore”… E’ la conferma che tutto il minuetto

si deve al desiderio inconscio di portarmi a letto.

Non potevi allora chiedermelo con fare più diretto

invece d’alludere meschinamente come fa l’ometto?

 

Donne ch’avete intelletto d’amore,

i’ vo’ con voi de la mia donna dire,

non perch’io creda sua laude finire,

ma ragionar per isfogar la mente.

Io dico che pensando il suo valore,

Amor sì dolce mi si fa sentire,

che s’io allora non perdessi ardire,

farei parlando innamorar la gente.

E io non vo’ parlar sì altamente,

ch’io divenisse per temenza vile;

ma tratterò del suo stato gentile

a rispetto di lei leggeramente,

donne e donzelle amorose, con vui,

ché non è cosa da parlarne altrui.

Bravo! E ti sembra forse gentil quell’espressione

“a rispetto di lei leggermente” che nella posizione

imbarazzante di chi gode poco rispetto mi pone?

Che vuol dire “leggermente”? Che non lo merito

del tutto perché ho commesso qualche illecito?

Per questo a cantartene quattro io or non esito!

 

Ma te lo aspettavi, non è forse vero?, tanto che

il canto in cui compaio, l’ultimo del Purgatorio,

mi fai subito esordire con il tono accusatorio

di chi ha sullo stomaco un bel nontiscordardime:

velata e su un fianco distesa come una matrona,

un ridicolo ramoscel d’ulivo il capo mi corona,

mi fai dire le idiozie di chi parla e non ragiona.

 

Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice. 

Come degnasti d’accedere al monte? 

non sapei tu che qui è l’uom felice?».                          

 

Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte; 

ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba, 

tanta vergogna mi gravò la fronte.     

 

Fai bene ad abbassar lo sguardo e provar vergogna

al mio cospetto, che nel mondo terreno alla gogna

mi ponesti con l’aria di chi non è capace di menzogna,

invece ne spara così grosse da parere una zampogna

e alla fine sa di meritarsi molto più di una rampogna.

 

Se non ti caccio puoi ringraziare gli angeli del coro

che cantano per farti traversare del paradiso il foro!

 

Ella si tacque; e li angeli cantaro 

di subito ‘In te, Domine, speravi’; 

ma oltre ‘Pedes meos’ non passaro.   

 

Tu te ne vai a spasso nell’aldilà perorando il vero

ben sapendo che la verità non giova ad un poeta,

il quale piuttosto l’anima con la parola allieta:

sostieni esplicitamente che ciò che dici è serio

e che sei a perfetta conoscenza che un profeta

viene sempre ripagato con la pessima moneta

dell’infamia: diranno che sei ladro o prosseneta,

la tua opera sarà mantenuta per secoli segreta

affinché il messaggio non giunga mai alla meta.

 

 

Ecco che allora per sviar la censura e depistare

dal nascosto intento politico del tuo capolavoro

metti me, donna, come una reliquia sull’altare,

fai intonare  canti celestiali agli angeli del coro

e mi trasformi in simbolo del bene da venerare,

amata in terra e spedita in paradiso a illuminare

con tutte le virtù di cui la sua bellezza fa tesoro

per risplendere come faro nelle notte di coloro

che hanno smarrito ogni valore della vita loro.

 

Tra parentesi aggiungo che ti rispondo in rima

pur sapendo che non son certo alla tua altezza,

ma visto che mi tratti come del cielo la regina

so che mi perdonerai se nella mia limitatezza

ardisco contraddirti e annunciarti in anteprima

che il fatto di privarmi dell’umana concretezza

m’idealizza troppo e mi fa sembrare una cretina

che spara luce d’ogni parte come una lampadina

per accecarti e manifestarmi a te come la bambina

che ciuccia un lecca-lecca con l’aria di sgualdrina.

 

Sì, caro il mio Poeta, te la potevi proprio risparmiare

quella stupida, sospetta, ironica, di troppo parolina

con cui mi fai sembrare una che onesta solo “pare”:

tu mi mettesti gl’occhi addosso quand’ero ragazzina

fingendo di guardar una povera nonnina, ché d’osare

l’approccio non te la sentivi temendo che la spina

d’un amore ricambiato, avrebbe portato alla rovina

del tuo progetto letterario, esaurita la spinta iniziale

di un sentimento sublimato per la femmina  ideale.

 

Conta bene i versi che compongon la presente strofa,

son esattamente nove secondo la stessa numerazione

con cui nel tuo poema cerchi di esprimer quella cosa

indicibile che nei misteri della Croce è definita Rosa

fingendo di parlar chiaro senza alcuna dissimulazione

del significato nascosto tra le righe che l’umano osa

sfiorare con la mente che cerca, disperata e ansiosa,

la chiave di volta per giungere alla comprensione

del punto ove l’universo splendente nella più radiosa

luce improvvisamente si traduce in immagine gioiosa.

 

(Per la verità mi accorgo solamente adesso

di essere andata un po’ troppo nell’eccesso

giacché i versi precedenti non erano nove

come ti avevo ingenuamente io promesso,

ma dieci, ricontali, su questo non ci piove:

ho sforato d’un verso, pazienza, fa lo stesso,

tanto qui nessuno fa molto caso alle poesiole

visto che da sempre Lui dall’alto tutto muove

senz’esser mosso: non vuole sentir cose nuove

e non fa mai caso alla bontà delle mie prove).

 

Chiusa parentesi, dunque, ero rimasta dove…?

Ah, credevo di poetare e invece solo coccodé

mi veniva: le mie rime non son poi un granché!

 

Ma un senso, sia pur nascosto come crema nel bigné,

ce l’avranno, tutto ha un senso fin dal tempo di Noé!

 

Che significa tutto ciò? Quel che dico ha un perché?

Cosa ho detto non lo so, parlo per enigmi come te,

ma non ho alcuna intenzione di ripetertelo in prosa

anche se rischio di ricadere a mia volta nei cliché

del doppio senso e del segreto arcano del tuo testo

con cui vuoi ottenebrare pure ciò che è manifesto…

come se sbirciassi dalla serratura mentre io mi svesto

credendo che intorno a me sia calato un buio pesto

per accorgermi che tu coltivi il proposito molesto

di infiorettare i miei difetti, render bello l’indigesto,

come fai con la realtà che però non te l’ha chiesto.

 

Allora non domandarmi cosa significhi tutto questo,

io stessa non capisco perché vuoi usarmi da pretesto

per realizzar lo scopo che non può dirsi molto onesto:

la gloria letteraria cui Poeta miri con la rima appiccicosa

a scapito di chi viene rappresentato nel lirico contesto

non come persona in carne ed ossa, ma come una cosa

cioé come un oggetto di devozione – e qui m’arresto –

confondendo pure il nome mio con quello della Rosa

e facendomi persino passare per una bigotta religiosa,

proprio me che nella vita terrena fui tanto capricciosa!

 

Apro una parentesi a proposito dell’ideale femminile:

a parte il fatto che ti sei fatto influenzare dalla poetica

del secolo precedente, c’è da dire anche che il tuo stile,

ricorda quello della lauda medievale della storia antica

della “Donna del Paradiso” che nel furore un po’  puerile

hai adottato affinché lassù dal ciel la sua mano benedica

la tua opera che altrimenti sembrerebbe frutto di senile

demenza e non di una lunga ricerca letteraria che a fatica

si è maturata accumulando sempre più energia nelle pile.

 

 

Vogliamo poi parlare dell’altra Lauda che ti ha preceduto,

che guarda caso s’intitola “La discesa di Cristo all’Inferno”

da cui hai tratto il tema, da tempo immemore conosciuto,

(Orfeo ti dice niente?) dei contatti dei mortali con l’Averno,

la ricerca nell’Oltretomba della donna e dell’amor perduto,

di cui Virgilio ti fu Maestro e al quale ti sei fatto subalterno

non tanto perché avevi bisogno del suo poetico sostegno,

ma piuttosto ché così facendo potevi scriver sul velluto?

 

Di che parlo? Davvero vuoi che lo ripeta? Dunque

ricominciamo da quella  famosa Lauda medievale

“La donna del Paradiso” da cui prendesti  spunto,

tu e gli altri dolci stilnovisti, del principale assunto

della donna deprivata d’ogni sua apparenza carnale

affinché spiritualizzata ed eroticamente resa neutrale

potesse farvi gioco con tutta la sua potenza virginale.

 

Tuttavia questo concetto non è farina del vostro sacco,

piuttosto è un argomento col tempo divenuto fiacco

con cui si presenta lo spirito stanco e il fisico stracco

di chi  mette tra sé e la donna vera un lirico distacco.

 

Quanto poi alla discesa agli inferi, qualche altra voce

si sa ti ha preceduto e non solo colui che ti conduce,

ma anche la lauda della “discesa di Cristo all’inferno”

la cui struttura drammatica imitasti, dissi e lo confermo.

Insomma, hai preso veramente per idioti i tuoi lettori?

Lo so benissimo che hai tanti importanti estimatori

(fosti sesto, ti cito testualmente, tra cotanto senno,

scusami tanto se ne faccio pubblicamente cenno!)

non posso dire che ci si sbagli a definirsi tuoi  cultori,

ma potevi almeno esplicitare, come sostengono Petrarca

e Machiavelli, da che porto mettesti in mare la tua barca.

 

Ecco spiegata la ragione per la quale

mi sei venuto a cercare con quel tale,

Virgilio, la tua guida spirituale,

che però non può aspirare

alla Luce e sulla porta si deve fermare

non godendo del sacramento battesimale:

gli desti un contentino tanto per fare

perché il mito di Orfeo ed Euridice

furbescamente gli sei riuscito a fregare,

e ciò spiega la scelta del nome di Beatrice

che come tu stesso noti fa la rima in “ice”.

 

 

Ma quella reverenza che s’indonna 

di tutto me, pur per Be e per ice, 

mi richinava come l’uom ch’assonna.

 

Ah, il mio nome in Be e ice ti fa venire voglia

di schiacciare un pisolino, sei di pasta sfoglia,

non certo l’uomo che aspetto che mi spoglia.

All’improvviso il riso sul viso mio germoglia:

 

Poco sofferse me cotal Beatrice 

e cominciò, raggiandomi d’un riso 

tal, che nel foco faria l’uom felice:  

 

A parte il fatto che la rima di “felice” con “Beatrice”

mi suona abbastanza facile quindi piuttosto infelice,

contrariamente a quanto pensi tu, sono incavolata

nera per essere da te costretta a questa sceneggiata

del Paradiso, dove i Santi fanno tante chiacchiere

per tenersi svegli nell’eterno a suon di schicchere!

Dài, non far lo gnorri,  non t’adombrar se metto in piazza

alcune piccole verità che non sminuiscono il gran valore

della tua geniale opera che segna la storia: non c’è chiazza,

ombra, dubbio alcuno che possa ormai convincere il lettore

che non trattasi d’un capolavoro ma d’un’opera che sguazza

tra il plagio e il marchingegno di un letterario manipolatore

di cose altrui, di colui che prende dove può e poi svolazza

di fantasia come s’avesse un rapporto personale col Creatore,

innalzando me, a fare da intermediario, una povera ragazza

neanche fossi capace di solcare il cielo col volo di una gazza!

Di me adori la visione

ma io avrei sinceramente

preferito meno adulazione

un amor non solo con la mente

ma anche con la percezione

dei sensi tutti, fisicamente,

non voglio dire carnalmente,

però con più partecipazione.

 

Che fai dunque, tu Poeta, mi guardi e non mi tocchi

nemmeno con un dito? Alla donna sembran sciocchi

coloro che davanti a loro non sanno spiccicar parola

e di strofe innamorate ne compongono una stuola.

 

Andiamo, più che per madonna santa

tu mi fai passare per una ottusa suora

di clausura che le lodi al cielo canta

ma non è padrona della propria storia.

Potevi avvicinarti, sfiorami appena

per carità non non oso dir col dito

almeno con lo sguardo, non foss’altro,

invece di scrivere un  poema

che di strofe è tanto cospicuo

da farti sperare nel gran salto

di qualità nella letteraria fama.

 

Così mentre ti si acclama

io faccio la parte della scema

che compare solo sulla scena

finale quando mi si chiama,

bontà tua, a tavola per la cena.

E ti stupisci se brandendo la lama

del coltello da cucina oso comparire

creando un problemino alla tua trama?

 

Tanto per cominciare: per farmi salire

all’Eterno mi hai prima fatto morire.

Eh già, perché certamente non ci va

in Paradiso chi sta ancor nell’aldiqua,

quindi hai deciso contro la mia volontà

di trasferimi di peso in questo tuo aldilà.

 

Anche Francesco per Chiara prese la sbandata,

ma la sua cotta fu alla luce del sole dichiarata:

non la costrinse il frate, che al pari tuo scrive,

a rinunciar come me alle sue sembianze vive.

 

Lui non le disse mai che doveva farsi da parte

ché passando a miglior vita ispirava la sua arte:

a differenza di te, caro Dante, il poeta lo faceva

non per passare ai posteri ma come gli veniva.

 

Quello che poi combinarono nelle loro celle

lo sa solo Dio: forse dormirono pelle a pelle,

o  forse si scambiaron spiritualissimi messaggi

confondendo i termini: i loro erano massaggi!

 

Chi lo sa!

 

Ma quand’anche così fosse, rispondi,  dove sta

la pietra dello scandalo visto che come insegna

Sant’Agostino è l’erotismo a fornire il primo “la”

all’amor di Cristo che nel cuor l’anima fa degna?

 

 

Pochi sanno che l’idea del viaggio eterno ti venne

quando andasti ad incontrare il tuo amico Giotto

che dipingeva della cappella de’i Scrovegni il lotto

del Giudizio Universale: prendesti in man le penne

per dimostrare all’amico pittore l’idea che ti venne

guardando e studiando il suo artistico prodotto

e così del  plagio che maturava lo rendesti edotto.

 

Lui, gran maestro d’arte, non credo prese bene

di ricever da te di pittura e disegno una lezione:

ingelosito chiese al custode di nascondere le scene

che stava dipingendo per non darti ispirazione

ulteriore, visto che stavi facendo il furbacchione:

dell’aldilà il pittore aveva  completa l’intuizione

e tu gli soffiavi la paternità della composizione.

 

Lasciamo perdere, meglio non toccar certi argomenti,

si correrebbe il rischio di scoprire che in fin dei conti

tu per secoli hai preso noi tutti per ingenui deficienti

che non han saputo distinguer l’origine dei tuoi canti,

che trovasti nella storia delle patrie lettere bell’e pronti

e ai quali desti solo un’aggiustatina – ed ora te ne vanti.

 

Ma c’è dell’altro, non voglio tenermi tutto dentro,

che devi spiegare per filo e segno a tutti quanti:

da dove tirasti fuori la lingua che dici esser centro

cardinale, da cardine  inteso come  principale perno,

di quella che tu eleggesti a rango di favella nazionale.

Perfino il povero Manzoni , mezzo millennio appresso,

ha ammesso d’aver dovuto bagnare i panni in Arno

perché in verità non gli sarebbe stato mai concesso

di scrivere un capolavoro in un  linguaggio indarno.

 

Illustre, cardinale, regale e curiale: così hai elevato

il volgare parlato dalla gente comune al mercato

a livello di un codice superiore che sembra velato,

come se le parole fossero pensate al quadrato.

 

Sul termine “cardinale” ho detto il mio schietto pensiero,

e sulla centralità della nostra favella oltre non mi ripeto.

Ma rispondimi almeno su questo: tu ritieni davvero

che l’italiano debba essere non solo un idioma forbito,

ma pure un codice per pochi, in cui un brutto epiteto

non può essere da tutti quanti comunemente recepito,

ma solo dal Re e dalla sua Corte che prestan l’udito?

 

 

Non per niente il concetto del dolce andar favellando

non è farina del tuo sacco, ma d’altri che dicon “brando”

al posto di “spada” e passano la vita intera ammirando

dolci pulzelle, che son poi le ragazze, loro ammiccando:

cosicché oltre ad esser classista, perché il popolo esclude,

‘sto dolce stil novo solo a parole le vede belle che nude.

Ma poi con chiacchiere al vento le pulzelle troppo delude,

così alla fine preferiscon qualche rimetta un po’ più rude.

 

Sì, so bene che le mie argomentazioni sembrano crude,

devi però capire che anch’io son una che molto s’illude

se un Poeta si cinge d’alloro il capo – e poco conclude.

 

Passiamo quindi al terzo concetto da te proposto: “curiale”,

ecclesiastico, dovrebb’essere questo tuo dolce stil novo,

come se i preti avessero bisogno di cercar peli nell’uovo

cinguettando come uccellini innamorati con fare sensuale!

Ho capito che vuoi mettere d’accordo lo Stato e la Chiesa,

ma non sarà un’operazione linguistica a realizzare l’impresa.

 

Quanto a quell’illustre con cui ti riempi tanto la bocca

confesso che in confronto al Cantico suona barocca:

Francesco scrisse per il popolo, tu per la gente allocca.

Perché sarebbe nobile una lingua che nessuno capisce,

che si ha perfino paura di usare, che molto irretisce

con giri di parole, frasi astratte, arzigogoli: stupisce,

ma non spiega il motivo per cui si soffre o si giosce?

Ma Virgilio n’avea lasciati scemi

 

D’allusioni e riferimenti come un campo tu dissemini,

tanto che prendendo alla lettera il verso con gli “scemi”

–  dirai: riferito al verso seguente in cui Virgilio, il Duce,

ci lascia scemi, ossia privi di sé, ecco come si traduce –

sul senso oscuro delle tue parole getti qualche luce

come a voler indicare che cosa con esse si produce.

 

Il bel suono sembra un cantico melodioso, tuttavia

spiegami il motivo per cui dei Frati umbri la Poesia

m’arriva forte e chiara, mentre la tua è pura teoria,

una forma di comunicazione tipica della massoneria.

 

Così il popolo resta sottomesso nella volgar ignoranza

e il ricco si frega le mani, gongola e si riempie la panza

dal momento che lui può capire la legge che il povero

percepisce come una forma di soverchieria e tracotanza

cui non può opporsi senza rischiar multa e rimprovero

e, se del caso, in una buia prigione persino il ricovero.

Invero tu non creasti una lingua nuova e più melodiosa,

ma una vera e propria struttura linguistica appiccicosa

nella quale il ragno del potere economico tesse la tela

in cui irretire la gente che nel suo volgare inutile bela

e non sa come formulare politicamente la sua querela.

 

Ora ascolta anche se ti par di donna questa lamentela:

non sono io quell’ Eva che vuol farti mangiar la mela

abbindolandoti come del serpente opera fu la loquela.

Piuttosto voglio dire che dovevi usar maggiore cautela

ed offire a color che in peregrina barca son senza tutela.

 

Mi riferisco alla gente semplice che vaga nel gran mare

dell’ignoranza e che non ha gli strumenti per navigare:

non possedendo i mezzi intellettuali per intedere bene

si fa travolger dalla stupidità nelle quotidiane sue pene.

 

Taci! So che cosa vuoi dirmi, vorresti addurre il fatto

che credevi solamente di creare lo strumento adatto

per sollevar l’uomo comune dal suo livello da coatto,

terra-terra, ad un essere capace d’intendere l’astratto

e trasformarsi così in protagonista del proprio riscatto.

 

E però, i ricchi parleranno sempre la lingua dei ricchi

mentre i poveri saranno sempre più trattati da micchi

non riuscendo a destreggiarsi bene nel codice tarocco

che fa sembrare chi non lo sa usare come uno sciocco.

 

Rispondi: ti sarebbe stato tanto difficile far lo sforzo

di spostarti linguisticamente di qualche chilometro

e andarti a cercare in Francesco d’Assisi quel rinforzo

ch’avrebbe sicuramente riportato allo spirito di Pietro,

al concetto che alla ricchezza bisogna dire: vade retro!,

il tuo ragionamento di cui non si capisce bene il metro?

 

Ma come, nel suo comprensibilissimo volgare umbro,

un po’ latineggiante è vero, il frate esprimeva il timbro

con cui parlare a tutto e a tutti, compresi gli uccelletti,

e tu ti sei messo a verseggiare come lupo a denti stretti

che non vuol far sentire che ringhia ai poveri capretti?

 

Ce l’avevi sotto gli occhi la lingua bell’e pronta all’uso,

potevi farne come ti pareva ogni tipologia d’abuso,

tirarla e stiracchiarla nel verso del fiorentino ingentilito

dai formalismi d’una corte colta e d’un potere politico

capace d’imporsi a baricentro dell’unità della nazione…

 

Tutto potevi fare e avevi la più ampia libertà d’azione,

invece, ahimé, ti mettesti supinamente a disposizione

di forze oscure, segreti occulti e concetti misteriosi

che hanno dato alla tua opera quei contorni fantasiosi

che ti portarono la gloria, ma che suonano fumosi:

infatti per capirne il senso han bisogno di una parafrase,

mentre le parole del Santo d’Assisi entran in tutte le case.

 

So bene che non è qui in discussione il tuo bel verso

e se insisto a farti a muso duro questo mio discorso

che trasforma la mia celeste veste in una pelle d’orso

è per farti capire come e perchè il senso andò disperso

della lingua popolare, il volgare, che ti è tanto avverso.

 

Ancora più grave è che per coprir il progetto perverso

mi hai messo mio malgrado al centro del tuo universo

facendomi apparire come una bacchettona che giudica

immorale la tua condotta terrena che fin troppo ludica

dovrebbe risuonare ad una donna ideale e così pudica

da guardarti dall’alto in basso con espressione abulica.

 

Che dovrei fare, strapparmi di dosso la celeste tunica,

oppure rivolgerti una solenne e alquanto dura predica

per il traviamento  che necessitò di qualche cura medica?

 

Va bene che cadesti in prostrazione fisica e mentale

per la mia triste dipartita che tu, da comune mortale,

cercasti di superare cominciandoti ad ubriacare,

a gozzovigliare frequentando donne di malaffare…

devo continuare? Dài, forse è meglio lasciar stare.

 

A me sinceramente non importa proprio nulla

se hai cercato nel seno di qualche altra fanciulla

l’oblio dei sensi e la soddisfazion di ciò che frulla

nella mente di un uomo che con l’eros si trastulla

e poi accampa una giustificazione un po’ fasulla.

 

Coraggio, siamo entrati nel primo canto del Paradiso

quando gli angeli sopravvengono a far buon viso

al tuo cattivo gioco adducendo ad una ragazzata

il tuo furore giovanile e quel comportamento

cui, per volere di chi puote, danno una ramazzata

visto che per esser perdonati basta il pentimento.

 

Ed ora, se ti aggrada, cambiamo l’argomento…

 

 

Devo confessarti lo strano presentimento:

hai lasciato  Virgilio, il tuo precedente Duce,

alla soglia del Paradiso e dell’accecante Luce

cui i tuoi occhi devono abituarsi poco a poco

per non restare abbacinati dal potente fuoco

che nei sette cieli splende e in spirito traduce

l’essenza dell’eterno che aleggia in questo loco

al quale pervenisti appena dal tuo viaggio truce.

 

Hai mollato lui perché non gli era concesso

di aver al cospetto del Padreterno l’accesso,

così ti ricordasti di me per ottener intercesso

e fare senza ostacoli nel paradiso l’ingresso.

 

Siccome presupponi che qui non sia concesso

di portarsi dietro il corpo e il proprio sesso,

m’hai trasfigurato in una specie di pesce lesso

e la mia natura femminile hai manomesso.

 

Dico io, già quand’ero sulla terra in vita

non hai azzardato di sfiorarmi con le dita

e m’annoi pure qui col tuo far da eremita?

 

Sappi che con te non mi sono mai divertita,

qualcuno sospettava che fossi un sodomita,

fatto sta che aspettandoti mi son spazientita,

più che un amante reale sembravi uno stilita.

 

Ora mi raggiungi confessandomi il misfatto

che mezzo mondo al femminile tu ti sei fatto

ma che il piacere fisico al punto t’ha assuefatto

da farti preferire un appagamento più astratto.

 

Ci risiamo? Io che già covavo un pensiero matto

dovrei di nuovo contentarmi dello scarno piatto

che mi offri, ovvero un desiderio insoddisfatto?

 

Il dente batte sempre là dove la lingua duole..

mi lamenterò in eterno per lui che non mi vuole!

 

Come volevasi dimostrare facesti dell’inferno

il primo luogo in cui amore fa rima con Averno!

 

amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende

 

nel senso che chi è sensibile subito l’intende

il richiamo cui ci si abbandona lascivamente;

poi continuasti con parole assai stupende

per concluder con visioni assai più tremende

 

Amor ch’a nullo amato amar perdona

 

Non oso dire che la rima non sia buona,

anzi è ottima, non voglio far la criticona!

Ma avresti dovuta metterla materialmente

in pratica senza girarci intorno dolcemente

per alleviare alla poverella nel foco sofferente

le pene di colei che  il proprio amor difende.

 

Ecco come recita la quartina chiaramente:

 

Amor, ch’a nullo amato amar perdona

mi prese del costui piacer sì forte

che, come vedi, ancor non m’abbandona

Amor condusse noi ad una morte…

 

Eccetera eccetera. Insomma ti par questo il modo

cui un Poeta deve ricorrere per arrivare al sodo?

Non appena lo spirito si mescola con la carne

e  nelle vene fa ribollire delle passioni il sangue

ti schieri con la mentalità del triste benpensante

che non trova di meglio che perseguitar l’amante.

 

Ti pare allora bello condannare i poveri ragazzi

alle pene dell’inferno e a soffrire come dei pazzi

per aver seguito l’impulso amoroso e il desiderio

stuzzicati dal libro galeotto colpevole d’adulterio?

Non potevi, che so?, adottar qualch’altro criterio

al fine d’evitare d’immergerli nell’orrido putiferio?

 

Poi diciamocelo in confidenza, quella bella rima

avresti potuto dedicarla a me, addirittura prima

che il tuo foco mi paresse più freddo della brina.

Già, perché  se c’è qualcuno che deve perdonare

colui che non sa amare, il ruolo a me devi lasciare.

 

Capisco

che interferisco

ma mi stupisco

che questo disco

con cui demolisco

il poema tuo prisco

con cui ci pulisco…

 

(Boccaccia mia statti zitta

non dar voce all’aria fritta

per non passare per guitta

ai posteri dà qualche dritta

per difendere la sottoscritta

da chi in versi se n’approfitta).

 

Dunque, dicevo… tornando a noi esseri pensanti…

 

Se le mie rimostranze ti sembreran troppo pesanti,

lo sono anche le tue rimette che suonano andanti

all’udito dei tuoi critici, ché ti giudicheranno in tanti.

Sarai dimenticato, stanne certo, per diversi secoli,

almeno finché la cultura sarà in mano agl’officianti

della Chiesa che della verità non tollerano i refoli

del vento che solleva le gonne dei preti baciapile

per i quali la  Commedia  è come un pesce d’Aprile.

Ci vorrà del tempo, e parecchio, per poter aprire

la mente e comprendere che il vero non ha prezzo:

è la tensione della verità che anch’io in te apprezzo.

 

Fu la tua poesia a fermare nella bolgia la tempesta

quando Francesca il racconto ti fece della funesta

disavventura che ai giovani amanti costò la testa

trascinandoli dal Cerbero che dell’anime fa festa.

Ma questa ansiosa ricerca del vero ad ogni costo,

svela della poesia e dell’arte il senso più nascosto,

costi quel che costi al poeta che si esprime tosto.

Mentre il tuo Virgilio al poter s’inchina, tu Tosco

ten vai così parlando onesto  – pur rischiando il posto

come Cacciaguida nel seguente canto ha risposto:

 

…Coscienza fusca

o de la propria o de l’altrui vergogna

pur sentirà la tua parola brusca.

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,

tutta tua vision fa manifesta;

e lascia pur grattar dov’è la rogna.

Chè se la voce tua sarà molesta

nel primo gusto, vital nodrimento

lascerà poi, quando sarà digesta.

Questo tuo grido farà come vento,

che le più alte cime più percuote;

e ciò non fa d’onor poco argomento.

 

 

 

Come non ammirare il coraggio con cui esponi

ai tuoi contemporanei del reale l’interpretazioni,

e più ti avvicini al giusto e al vero e più fa male

il tuo nobile messaggio come sulla ferita il sale!

 

Resta tuttavia qualche ipocrisia che va chiarita

nella tua visione del mondo che si è accanita

contro i due giovani amanti rei d’aver ceduto

alla brama dei sensi, mentre hai ben bensato

di salvare lo stilnovista Giacomo da Lentini

che svolazza liberamente nell’ultimo cerchio

del purgatorio nonostante coltivi pensierini

lussuriosi, ma usando la poesia a coperchio

con cui cinguetta come sanno fare i canarini.

 

Due pesi adottasti incomprensibilmente:

uno per punire il tradimento ed il peccato,

l’altro a salvaguardia del verseggiare baciato

in rima, come se fosse un gioco innocente

nascondere l’erotismo nel verso impenitente.

 

Il sospetto è che il Notaro rimatore siculo

serviva da modello letterario e l’hai beato;

mentre agl’innamoratini tu bruciasti il culo…

chiedo scusa se del bello stile non mi curo!,

per prendere le distanze dal peccator che sei

quando t’elevi a giudice morale come i farisei.

 

Bravo!

 

Poi come corpo morto cade sei  svenuto

alla vista di quanto dolore hai provocato

come uno che la fiasca intera s’è bevuto

e troppo tardi s’accorge d’aver esagerato.

 

Ora però lasciamo questo discorso e andiamo

in un cerchio più alto ché questo in cui siamo

la luce divina a stento irrora la tenebra interiore,

su, muoviamoci,  il giorno non dura in eterno

e tu non potrai qui restare per molte altre ore:

presto farai ritorno donde venisti dall’esterno

poiché t’è concessa solo una sosta nel paterno

Regno del Bene per ammirar il divino governo.

 

Adesso per piacere lo spirito tieni bene fermo:

verso l’Empireo dell’alto cielo stiamo salendo

e tu non fai altro che guardarmi con quell’aria

interrogativa del curioso dell’origine planetaria

che vuol indagar la natura reale o immaginaria

di ciò che pare intuibile solo per via visionaria.

Ad esempio è questa la tua domanda primaria:

vuoi sapere perché la sostanza della Luna varia

a seconda della densità e dei vuoti d’atmosfera,

del motivo per cui a chiazze essa sembra chiara

ma poi quando è piena rivela una macchia nera?

 

Ebbene sappi:  le macchie della Luna son materia

degli Angeli che volteggiano dalla mattina a sera

gironzolando pei cieli con trombette e sonagliera

ad annunciar che l’Altissimo è Signor della voliera

in cui non fa mai inverno ma è sempre primavera.

 

Dimmi adesso se della mia risposta sei contento

e sei hai capito dei meccanismi il funzionamento

che fa del cielo un marchingegno per il piacimento

di Colui che ci ha creati e che ci dà sostentamento

in modo che la terra se ne stia ben ferma al centro,

che non si muova a causa di qualche sbandamento.

 

Non ti sbagliare nel riportar su carta le mie parole:

non ho detto che la terra gira e che si muove il sole.

E a proposito d’Angeli non ho detto che con l’alito

spingono le nubi fin sul Trono: ho parlato d’anelito

celeste, non fiato dai bronchi, insomma, ma spirito.

E con questo spero che tu abbia finalmente capito

che le mie risposte hanno un valore solo simbolico

e che non devi prenderle come fai in modo esplicito.

Ciò detto, mentre ci appropinquiamo all’altro Cielo,

fammi capire perché concludi sempre le tre cantiche

con la parola “stelle” che mi da la sensazione di gelo

perché fa ricicciar fuori vecchie teorie aristoteliche.

 

e quindi uscimmo a riveder le stelle

puro e disposto a salire alle stelle

l’amor che move il sole e l’altre stelle

 

Scusa se mi discosto un poco dal ruolo che mi desti,

ma tu pensi davvero di trovare un Dio in tutti questi

universi che compongono il Creato e in cui nascosti

si sono gli angeli e i demoni che invece han riposto

i segreti in seno alla materia come frutti in un cesto

e dall’esplosione primordiale non hanno più risposto

perché si son fusi con la polvere e con tutto il resto?

Tu pensi davvero che esista uno spirito individuale,

l’anima del singolo, e non piuttosto una forza vitale

che si esprime attraverso l’evoluzione universale

in cui il particolare è contenuto astratto e generale?

Sei così ottuso da pensar che il caduco sia

la parte che bisogna prima o poi buttare via

e  non invero la sua stessa proiezione materiale

come il seme che contiene l’idea del diventare?

 

Fammi capire bene come stanno le cose perché

se vai in cerca di Dio laddove però Lui non c’è,

non troverai altro che il deserto – peggio per te.

 

Quindi, invece di innalzare cori alle stelle

come un bambino che crede che le ciambelle

col buco sian piene fuori e dentro senza nulla,

torna coi piedi per terra, abbandona la citrulla

ipotesi che anima e corpo sian fin dalla culla

separati:  non è così,  te lo dice una fanciulla.

 

La teoria del dualismo cielo-terra è una burla

con cui Dio gioca a nascondino con chi urla

“tana”  prima di vederlo e non capisce ch’è fasulla,

perché niente si crea e niente alla fin s’annulla.

 

Del resto se mi hai trascinato nel tuo viaggio,

o meglio nel volo pindarico che hai sognato,

non è per prendere un fantasma in ostaggio:

la verità è che io rappresento il personaggio

che ti riporta dall’empireo al terreno arato,

ti fa stare al suolo sempre saldo e ancorato

per non perdere di vista le realtà e lo stato

in cui versa l’umanità vittima del peccato.

 

Ti smarriresti nel vortice in cui sei entrato

e malediresti il giorno stesso in cui sei nato

se non avessi al tuo fianco chi t’offre aiuto

ricordandoti sempre l’umanissimo tuo stato.

 

Sinceramente non mi convince il modo

con cui m’esprimesti il tuo ringraziamento:

mi fai sembrare come giuggiola nel brodo

che dimendica decenza di comportamento

mettendosi a gridar con te: o come godo!

 

Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’ 

fra me, ‘dille’, dicea, ‘a la mia donna 

che mi diseta con le dolci stille’.     

Falla subito finita con queste “dolci stille”,

non sei un lattante che vuole le mammelle,

se sproloqui le parole trova un po’ più belle,

altrimenti sei solo fumo che non fa scintille.

 

Quanto agli Spiriti Amanti che incontriamo appesso…

 

Guarda avanti, non starmi a rimirar come se adesso

mi trovassi tanto più bella da farti pensare al sesso!

Siamo nel cielo di Venere, la dea che si crede amorale

ma che invece contiene la forza motrice universale..

 

Beh, potevi provarci quand’ero ancora un essere vitale?

Ma ormai è troppo tardi, Venere s’eclissa con il giorno,

e pure io, caro mio, non vedo l’ora di togliermiti di torno!

(E fermo con le mani che qui non è ammesso il porno!)

 

Oppure pensi che al poeta tutto quanto sia concesso,

anche di fremer e spasimar d’amore come un ossesso?

No, caro il mio Dantuccio, mi sa che ti sbagli di grosso,

al poeta la vita non riserva altro che il più duro osso:

il suo destino è quello dalla memoria d’essere rimosso!

 

Ma ora credo che sia venuto finalmente il tempo

d’esprimerti ancor più chiaramente quel che penso

di questo tuo viaggio ch’io ritengo di pura fantasia

con cui però vuoi dare un senso politico alla poesia.

Che io realmente non esista, insomma che non ci sia

se non nella tua mente d’artista, di pittore e narratore

è un dato di fatto incontrovertibile, perché sei autore

solo di un sogno che hai sognato nelle notturne ore.

 

Il passante t’osserva dal vetro immerso nell’oscuro

della stanza al desco illuminato da un solitario lume

scrivere cercando d’erodere la superficie del futuro,

come se la realtà fosse un luogo fin troppo insicuro

per chi altrove va in cerca di qualcosa di duraturo.

 

Sì, ma dove se non nell’illusione

dell’eterno che si rivela

nel volo di una mosca

nel ronzio della zanzara

nel crepitio del fuoco

nel pianto di un neonato

nel sogno mai sognato

nell’amore a nulla amato

mentre la notte incipiente

raccoglie nel suo recipiente

parole che la mente

pronuncia ma non sente

come pensiero mai pensato

o l’oggetto di un concetto

da un soggetto divinizzato

di mistero mai svelato

di un segreto ormai rinchiuso

nel vuoto di uno spazio

che si apre all’infinito

poi ricade su sè stesso

come un tappo di bottiglia

che da solo s’è stappato

per la forza che contiene

lo spirito che tiene

insieme il corpo

che è già morto

al primo parto

così anche tu

soffuso e rinchiuso

nel mondo interiore

senti un lamento

lontano e tremendo

è il tuo cuore che batte

con ritmo furioso

ma è solo l’idea

che spinge la vita

all’estremo confine

e poi si riprende

la parte che spetta

all’uomo che solo

osa il suo volo

nell’infinito

silenzio

 

 

Qual è colui che sognando vede, 

che dopo ‘l sogno la passione impressa 

rimane, e l’altro a la mente non riede,                          

 

cotal son io, ché quasi tutta cessa 

mia visione, e ancor mi distilla 

nel core il dolce che nacque da essa.                          

 

Così la neve al sol si disigilla; 

così al vento ne le foglie levi 

si perdea la sentenza di Sibilla.                                     

 

O somma luce che tanto ti levi 

da’ concetti mortali, a la mia mente 

ripresta un poco di quel che parevi,                              

 

e fa la lingua mia tanto possente, 

ch’una favilla sol de la tua gloria 

possa lasciare a la futura gente;                                   

 

ché, per tornare alquanto a mia memoria 

e per sonare un poco in questi versi, 

più si conceperà di tua vittoria.                                       

 

Io credo, per l’acume ch’io soffersi 

del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito, 

se li occhi miei da lui fossero aversi.                           

 

E’ mi ricorda ch’io fui più ardito 

per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi 

l’aspetto mio col valore infinito.    

 

 

Il sommo poeta finalmente si addormenta

allo scrittoio: la sua  giornata è stata lunga

e faticosa, un pensiero ancora lo tormenta

nell’incerto riposo di una notte che prolunga

l’ombra sull’umano fare e disfare della vita.

 

Ed io, a questo punto, che cosa vuoi che dica

mentre la candela si consuma e lentamente

l’inchiostro come un grumo si rapprende

come se nelle vene scorresse la sabbia

d’una clessidra girata e rigirata con rabbia

fino a confondere la notte col giorno

e la fiamma dell’inferno con l’eterno

più puro e trasparente della sua luce?

Ora dorme nella quiete che non sente

il dolore che colpisce l’essere esistente

e che nel cuore in un nodo si traduce

che stringe il petto, l’apre e lo ricuce.

Il poeta svanisce nelle sue parole,

si smarrisce e torna quando vuole

come ogni giorno fa pure il sole

per irrorar le menti come aiuole

in cui sboccia sempre un fiore.

Non arrenderti poeta

se la tua anima è smarrita,

non arrenderti alla critica,

sembra dirti questa amica

che ora dolcemente ti saluta

e nel sonno eterno resta muta.

Ma resta un barlume di speranza

come un richiamo in lontananza

una specie di rumore di fondo

che assorda la mente confusa

spezza il cuore che alla rinfusa

accumula il tempo di sabbia

trasportata sulle dune desertiche

di mari e di nebbie sulla spiaggia

in cui fummo e in cui saremo

forse ancora o per sempre

come un raggio di sole

che diventa arcobaleno

prima della notte che viene

a colmare il grande oceano

in cui tutti insieme

ci ritroveremo

nel male e nel bene

germoglio d’un seme

che ora va e ora viene

nella natura che freme

di visioni ultraterrene

del tuo corpo che geme

nelle ore più estreme.

 

 

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