Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua devèn, tremando, muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare
Tanto gentile e onesta pare… l’hai scritto tu,
non guardare altrove come se non ci fossi
ché il sangue mi sale alla testa ancor di più
tanto che i capelli biondi mi diventan rossi
come i diavoli a corte del maligno Belzebù
che andasti a visitare facendo gl’occhi grossi
per tutte le sofferenze che si patiscon laggiù
dove gl’animi delicati come il tuo son scossi
e il pianto de’ dannati evocan incubi rimossi.
Lo ripeto: colei che tanto gentil e onesta pare,
sarei io, neanche fossi donnaccia di malaffare:
di questa battutaccia sei proprio tu l’autore…
il Sommo Poeta è il mio primo turlupinatore!
Che ti è saltato in mente, mi dovrai spiegare,
di dubitare della mia onestà con quel “pare”,
come se volessi dire qualcosa sul mio onore
alludendo magari ad un segreto spasimante
che fa di me misera la sua scatenata amante
dopo avermi fatto negar il senso del pudore.
Capisco che dovevi far la rima con “guardare”
che chiude la quartina dopo “la lingua è muta”,
ma spiegami a chi alludi con “quell’altrui saluta”
che mi mette in cattiva luce e mi fa arrabbiare!
Io non saluto chicchessia, non essere volgare:
sappi che questa strofa non mi è mai piaciuta,
anzi visto che mi fa passare per una prostituta
rispondo per le rime alla tua insinuazione bruta.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta,
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Non contento di farmi passar per facile donzella,
ti diverti a rappresentarmi come una Cenerentola
“vestita d’umiltà”, magari con in testa una pentola
a mo’ di copricapo. Beh, non sarò una modella,
ma indosso abiti decenti, non da straccivendola.
Mostrasi sì piacente a chi la mira
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ‘ntender no la può chi no la prova;
E qui casca l’asino che sei! Non crededere che sia
così sciocca da non capir che con “chi no la prova”
non ti riferisci alla sottoscritta, leggo bene la poesia,
bensì alla dolcezza che a guardarmi il cuore trova.
Tuttavia, il verso è costruito non senza furberia:
potrebbe sembrare che per una strana geometria
sia io a dover essere provata come gatta in cova.
Conosco l’arte di trasformar una maschile fantasia
attraverso il dico-non-dico in schiacciante prova
che una donna onesta trascina dritta nell’alcova.
Infatti a questa rima tu ne aggiungi una nuova:
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.
Ci siamo, prima m’elevi al rango di colei che ispira
e poi mi sento dire che son peggio d’una vampira
la qual le labbra muove tremolanti e “pien d’amore”
come s’atteggiano le femmine di strada senza onore!
Che fai, scuoti la testa? Prendiamo quel sonetto
famoso che s’intitola: “donne ch’avete intelletto
d’amore”… E’ la conferma che tutto il minuetto
si deve al desiderio inconscio di portarmi a letto.
Non potevi allora chiedermelo con fare più diretto
invece d’alludere meschinamente come fa l’ometto?
Donne ch’avete intelletto d’amore,
i’ vo’ con voi de la mia donna dire,
non perch’io creda sua laude finire,
ma ragionar per isfogar la mente.
Io dico che pensando il suo valore,
Amor sì dolce mi si fa sentire,
che s’io allora non perdessi ardire,
farei parlando innamorar la gente.
E io non vo’ parlar sì altamente,
ch’io divenisse per temenza vile;
ma tratterò del suo stato gentile
a rispetto di lei leggeramente,
donne e donzelle amorose, con vui,
ché non è cosa da parlarne altrui.
Bravo! E ti sembra forse gentil quell’espressione
“a rispetto di lei leggermente” che nella posizione
imbarazzante di chi gode poco rispetto mi pone?
Che vuol dire “leggermente”? Che non lo merito
del tutto perché ho commesso qualche illecito?
Per questo a cantartene quattro io or non esito!
Ma te lo aspettavi, non è forse vero?, tanto che
il canto in cui compaio, l’ultimo del Purgatorio,
mi fai subito esordire con il tono accusatorio
di chi ha sullo stomaco un bel nontiscordardime:
velata e su un fianco distesa come una matrona,
un ridicolo ramoscel d’ulivo il capo mi corona,
mi fai dire le idiozie di chi parla e non ragiona.
Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?».
Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Fai bene ad abbassar lo sguardo e provar vergogna
al mio cospetto, che nel mondo terreno alla gogna
mi ponesti con l’aria di chi non è capace di menzogna,
invece ne spara così grosse da parere una zampogna
e alla fine sa di meritarsi molto più di una rampogna.
Se non ti caccio puoi ringraziare gli angeli del coro
che cantano per farti traversare del paradiso il foro!
Ella si tacque; e li angeli cantaro
di subito ‘In te, Domine, speravi’;
ma oltre ‘Pedes meos’ non passaro.
Tu te ne vai a spasso nell’aldilà perorando il vero
ben sapendo che la verità non giova ad un poeta,
il quale piuttosto l’anima con la parola allieta:
sostieni esplicitamente che ciò che dici è serio
e che sei a perfetta conoscenza che un profeta
viene sempre ripagato con la pessima moneta
dell’infamia: diranno che sei ladro o prosseneta,
la tua opera sarà mantenuta per secoli segreta
affinché il messaggio non giunga mai alla meta.
Ecco che allora per sviar la censura e depistare
dal nascosto intento politico del tuo capolavoro
metti me, donna, come una reliquia sull’altare,
fai intonare canti celestiali agli angeli del coro
e mi trasformi in simbolo del bene da venerare,
amata in terra e spedita in paradiso a illuminare
con tutte le virtù di cui la sua bellezza fa tesoro
per risplendere come faro nelle notte di coloro
che hanno smarrito ogni valore della vita loro.
Tra parentesi aggiungo che ti rispondo in rima
pur sapendo che non son certo alla tua altezza,
ma visto che mi tratti come del cielo la regina
so che mi perdonerai se nella mia limitatezza
ardisco contraddirti e annunciarti in anteprima
che il fatto di privarmi dell’umana concretezza
m’idealizza troppo e mi fa sembrare una cretina
che spara luce d’ogni parte come una lampadina
per accecarti e manifestarmi a te come la bambina
che ciuccia un lecca-lecca con l’aria di sgualdrina.
Sì, caro il mio Poeta, te la potevi proprio risparmiare
quella stupida, sospetta, ironica, di troppo parolina
con cui mi fai sembrare una che onesta solo “pare”:
tu mi mettesti gl’occhi addosso quand’ero ragazzina
fingendo di guardar una povera nonnina, ché d’osare
l’approccio non te la sentivi temendo che la spina
d’un amore ricambiato, avrebbe portato alla rovina
del tuo progetto letterario, esaurita la spinta iniziale
di un sentimento sublimato per la femmina ideale.
Conta bene i versi che compongon la presente strofa,
son esattamente nove secondo la stessa numerazione
con cui nel tuo poema cerchi di esprimer quella cosa
indicibile che nei misteri della Croce è definita Rosa
fingendo di parlar chiaro senza alcuna dissimulazione
del significato nascosto tra le righe che l’umano osa
sfiorare con la mente che cerca, disperata e ansiosa,
la chiave di volta per giungere alla comprensione
del punto ove l’universo splendente nella più radiosa
luce improvvisamente si traduce in immagine gioiosa.
(Per la verità mi accorgo solamente adesso
di essere andata un po’ troppo nell’eccesso
giacché i versi precedenti non erano nove
come ti avevo ingenuamente io promesso,
ma dieci, ricontali, su questo non ci piove:
ho sforato d’un verso, pazienza, fa lo stesso,
tanto qui nessuno fa molto caso alle poesiole
visto che da sempre Lui dall’alto tutto muove
senz’esser mosso: non vuole sentir cose nuove
e non fa mai caso alla bontà delle mie prove).
Chiusa parentesi, dunque, ero rimasta dove…?
Ah, credevo di poetare e invece solo coccodé
mi veniva: le mie rime non son poi un granché!
Ma un senso, sia pur nascosto come crema nel bigné,
ce l’avranno, tutto ha un senso fin dal tempo di Noé!
Che significa tutto ciò? Quel che dico ha un perché?
Cosa ho detto non lo so, parlo per enigmi come te,
ma non ho alcuna intenzione di ripetertelo in prosa
anche se rischio di ricadere a mia volta nei cliché
del doppio senso e del segreto arcano del tuo testo
con cui vuoi ottenebrare pure ciò che è manifesto…
come se sbirciassi dalla serratura mentre io mi svesto
credendo che intorno a me sia calato un buio pesto
per accorgermi che tu coltivi il proposito molesto
di infiorettare i miei difetti, render bello l’indigesto,
come fai con la realtà che però non te l’ha chiesto.
Allora non domandarmi cosa significhi tutto questo,
io stessa non capisco perché vuoi usarmi da pretesto
per realizzar lo scopo che non può dirsi molto onesto:
la gloria letteraria cui Poeta miri con la rima appiccicosa
a scapito di chi viene rappresentato nel lirico contesto
non come persona in carne ed ossa, ma come una cosa
cioé come un oggetto di devozione – e qui m’arresto –
confondendo pure il nome mio con quello della Rosa
e facendomi persino passare per una bigotta religiosa,
proprio me che nella vita terrena fui tanto capricciosa!
Apro una parentesi a proposito dell’ideale femminile:
a parte il fatto che ti sei fatto influenzare dalla poetica
del secolo precedente, c’è da dire anche che il tuo stile,
ricorda quello della lauda medievale della storia antica
della “Donna del Paradiso” che nel furore un po’ puerile
hai adottato affinché lassù dal ciel la sua mano benedica
la tua opera che altrimenti sembrerebbe frutto di senile
demenza e non di una lunga ricerca letteraria che a fatica
si è maturata accumulando sempre più energia nelle pile.
Vogliamo poi parlare dell’altra Lauda che ti ha preceduto,
che guarda caso s’intitola “La discesa di Cristo all’Inferno”
da cui hai tratto il tema, da tempo immemore conosciuto,
(Orfeo ti dice niente?) dei contatti dei mortali con l’Averno,
la ricerca nell’Oltretomba della donna e dell’amor perduto,
di cui Virgilio ti fu Maestro e al quale ti sei fatto subalterno
non tanto perché avevi bisogno del suo poetico sostegno,
ma piuttosto ché così facendo potevi scriver sul velluto?
Di che parlo? Davvero vuoi che lo ripeta? Dunque
ricominciamo da quella famosa Lauda medievale
“La donna del Paradiso” da cui prendesti spunto,
tu e gli altri dolci stilnovisti, del principale assunto
della donna deprivata d’ogni sua apparenza carnale
affinché spiritualizzata ed eroticamente resa neutrale
potesse farvi gioco con tutta la sua potenza virginale.
Tuttavia questo concetto non è farina del vostro sacco,
piuttosto è un argomento col tempo divenuto fiacco
con cui si presenta lo spirito stanco e il fisico stracco
di chi mette tra sé e la donna vera un lirico distacco.
Quanto poi alla discesa agli inferi, qualche altra voce
si sa ti ha preceduto e non solo colui che ti conduce,
ma anche la lauda della “discesa di Cristo all’inferno”
la cui struttura drammatica imitasti, dissi e lo confermo.
Insomma, hai preso veramente per idioti i tuoi lettori?
Lo so benissimo che hai tanti importanti estimatori
(fosti sesto, ti cito testualmente, tra cotanto senno,
scusami tanto se ne faccio pubblicamente cenno!)
non posso dire che ci si sbagli a definirsi tuoi cultori,
ma potevi almeno esplicitare, come sostengono Petrarca
e Machiavelli, da che porto mettesti in mare la tua barca.
Ecco spiegata la ragione per la quale
mi sei venuto a cercare con quel tale,
Virgilio, la tua guida spirituale,
che però non può aspirare
alla Luce e sulla porta si deve fermare
non godendo del sacramento battesimale:
gli desti un contentino tanto per fare
perché il mito di Orfeo ed Euridice
furbescamente gli sei riuscito a fregare,
e ciò spiega la scelta del nome di Beatrice
che come tu stesso noti fa la rima in “ice”.
Ma quella reverenza che s’indonna
di tutto me, pur per Be e per ice,
mi richinava come l’uom ch’assonna.
Ah, il mio nome in Be e ice ti fa venire voglia
di schiacciare un pisolino, sei di pasta sfoglia,
non certo l’uomo che aspetto che mi spoglia.
All’improvviso il riso sul viso mio germoglia:
Poco sofferse me cotal Beatrice
e cominciò, raggiandomi d’un riso
tal, che nel foco faria l’uom felice:
A parte il fatto che la rima di “felice” con “Beatrice”
mi suona abbastanza facile quindi piuttosto infelice,
contrariamente a quanto pensi tu, sono incavolata
nera per essere da te costretta a questa sceneggiata
del Paradiso, dove i Santi fanno tante chiacchiere
per tenersi svegli nell’eterno a suon di schicchere!
Dài, non far lo gnorri, non t’adombrar se metto in piazza
alcune piccole verità che non sminuiscono il gran valore
della tua geniale opera che segna la storia: non c’è chiazza,
ombra, dubbio alcuno che possa ormai convincere il lettore
che non trattasi d’un capolavoro ma d’un’opera che sguazza
tra il plagio e il marchingegno di un letterario manipolatore
di cose altrui, di colui che prende dove può e poi svolazza
di fantasia come s’avesse un rapporto personale col Creatore,
innalzando me, a fare da intermediario, una povera ragazza
neanche fossi capace di solcare il cielo col volo di una gazza!
Di me adori la visione
ma io avrei sinceramente
preferito meno adulazione
un amor non solo con la mente
ma anche con la percezione
dei sensi tutti, fisicamente,
non voglio dire carnalmente,
però con più partecipazione.
Che fai dunque, tu Poeta, mi guardi e non mi tocchi
nemmeno con un dito? Alla donna sembran sciocchi
coloro che davanti a loro non sanno spiccicar parola
e di strofe innamorate ne compongono una stuola.
Andiamo, più che per madonna santa
tu mi fai passare per una ottusa suora
di clausura che le lodi al cielo canta
ma non è padrona della propria storia.
Potevi avvicinarti, sfiorami appena
per carità non non oso dir col dito
almeno con lo sguardo, non foss’altro,
invece di scrivere un poema
che di strofe è tanto cospicuo
da farti sperare nel gran salto
di qualità nella letteraria fama.
Così mentre ti si acclama
io faccio la parte della scema
che compare solo sulla scena
finale quando mi si chiama,
bontà tua, a tavola per la cena.
E ti stupisci se brandendo la lama
del coltello da cucina oso comparire
creando un problemino alla tua trama?
Tanto per cominciare: per farmi salire
all’Eterno mi hai prima fatto morire.
Eh già, perché certamente non ci va
in Paradiso chi sta ancor nell’aldiqua,
quindi hai deciso contro la mia volontà
di trasferimi di peso in questo tuo aldilà.
Anche Francesco per Chiara prese la sbandata,
ma la sua cotta fu alla luce del sole dichiarata:
non la costrinse il frate, che al pari tuo scrive,
a rinunciar come me alle sue sembianze vive.
Lui non le disse mai che doveva farsi da parte
ché passando a miglior vita ispirava la sua arte:
a differenza di te, caro Dante, il poeta lo faceva
non per passare ai posteri ma come gli veniva.
Quello che poi combinarono nelle loro celle
lo sa solo Dio: forse dormirono pelle a pelle,
o forse si scambiaron spiritualissimi messaggi
confondendo i termini: i loro erano massaggi!
Chi lo sa!
Ma quand’anche così fosse, rispondi, dove sta
la pietra dello scandalo visto che come insegna
Sant’Agostino è l’erotismo a fornire il primo “la”
all’amor di Cristo che nel cuor l’anima fa degna?
Pochi sanno che l’idea del viaggio eterno ti venne
quando andasti ad incontrare il tuo amico Giotto
che dipingeva della cappella de’i Scrovegni il lotto
del Giudizio Universale: prendesti in man le penne
per dimostrare all’amico pittore l’idea che ti venne
guardando e studiando il suo artistico prodotto
e così del plagio che maturava lo rendesti edotto.
Lui, gran maestro d’arte, non credo prese bene
di ricever da te di pittura e disegno una lezione:
ingelosito chiese al custode di nascondere le scene
che stava dipingendo per non darti ispirazione
ulteriore, visto che stavi facendo il furbacchione:
dell’aldilà il pittore aveva completa l’intuizione
e tu gli soffiavi la paternità della composizione.
Lasciamo perdere, meglio non toccar certi argomenti,
si correrebbe il rischio di scoprire che in fin dei conti
tu per secoli hai preso noi tutti per ingenui deficienti
che non han saputo distinguer l’origine dei tuoi canti,
che trovasti nella storia delle patrie lettere bell’e pronti
e ai quali desti solo un’aggiustatina – ed ora te ne vanti.
Ma c’è dell’altro, non voglio tenermi tutto dentro,
che devi spiegare per filo e segno a tutti quanti:
da dove tirasti fuori la lingua che dici esser centro
cardinale, da cardine inteso come principale perno,
di quella che tu eleggesti a rango di favella nazionale.
Perfino il povero Manzoni , mezzo millennio appresso,
ha ammesso d’aver dovuto bagnare i panni in Arno
perché in verità non gli sarebbe stato mai concesso
di scrivere un capolavoro in un linguaggio indarno.
Illustre, cardinale, regale e curiale: così hai elevato
il volgare parlato dalla gente comune al mercato
a livello di un codice superiore che sembra velato,
come se le parole fossero pensate al quadrato.
Sul termine “cardinale” ho detto il mio schietto pensiero,
e sulla centralità della nostra favella oltre non mi ripeto.
Ma rispondimi almeno su questo: tu ritieni davvero
che l’italiano debba essere non solo un idioma forbito,
ma pure un codice per pochi, in cui un brutto epiteto
non può essere da tutti quanti comunemente recepito,
ma solo dal Re e dalla sua Corte che prestan l’udito?
Non per niente il concetto del dolce andar favellando
non è farina del tuo sacco, ma d’altri che dicon “brando”
al posto di “spada” e passano la vita intera ammirando
dolci pulzelle, che son poi le ragazze, loro ammiccando:
cosicché oltre ad esser classista, perché il popolo esclude,
‘sto dolce stil novo solo a parole le vede belle che nude.
Ma poi con chiacchiere al vento le pulzelle troppo delude,
così alla fine preferiscon qualche rimetta un po’ più rude.
Sì, so bene che le mie argomentazioni sembrano crude,
devi però capire che anch’io son una che molto s’illude
se un Poeta si cinge d’alloro il capo – e poco conclude.
Passiamo quindi al terzo concetto da te proposto: “curiale”,
ecclesiastico, dovrebb’essere questo tuo dolce stil novo,
come se i preti avessero bisogno di cercar peli nell’uovo
cinguettando come uccellini innamorati con fare sensuale!
Ho capito che vuoi mettere d’accordo lo Stato e la Chiesa,
ma non sarà un’operazione linguistica a realizzare l’impresa.
Quanto a quell’illustre con cui ti riempi tanto la bocca
confesso che in confronto al Cantico suona barocca:
Francesco scrisse per il popolo, tu per la gente allocca.
Perché sarebbe nobile una lingua che nessuno capisce,
che si ha perfino paura di usare, che molto irretisce
con giri di parole, frasi astratte, arzigogoli: stupisce,
ma non spiega il motivo per cui si soffre o si giosce?
Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
D’allusioni e riferimenti come un campo tu dissemini,
tanto che prendendo alla lettera il verso con gli “scemi”
– dirai: riferito al verso seguente in cui Virgilio, il Duce,
ci lascia scemi, ossia privi di sé, ecco come si traduce –
sul senso oscuro delle tue parole getti qualche luce
come a voler indicare che cosa con esse si produce.
Il bel suono sembra un cantico melodioso, tuttavia
spiegami il motivo per cui dei Frati umbri la Poesia
m’arriva forte e chiara, mentre la tua è pura teoria,
una forma di comunicazione tipica della massoneria.
Così il popolo resta sottomesso nella volgar ignoranza
e il ricco si frega le mani, gongola e si riempie la panza
dal momento che lui può capire la legge che il povero
percepisce come una forma di soverchieria e tracotanza
cui non può opporsi senza rischiar multa e rimprovero
e, se del caso, in una buia prigione persino il ricovero.
Invero tu non creasti una lingua nuova e più melodiosa,
ma una vera e propria struttura linguistica appiccicosa
nella quale il ragno del potere economico tesse la tela
in cui irretire la gente che nel suo volgare inutile bela
e non sa come formulare politicamente la sua querela.
Ora ascolta anche se ti par di donna questa lamentela:
non sono io quell’ Eva che vuol farti mangiar la mela
abbindolandoti come del serpente opera fu la loquela.
Piuttosto voglio dire che dovevi usar maggiore cautela
ed offire a color che in peregrina barca son senza tutela.
Mi riferisco alla gente semplice che vaga nel gran mare
dell’ignoranza e che non ha gli strumenti per navigare:
non possedendo i mezzi intellettuali per intedere bene
si fa travolger dalla stupidità nelle quotidiane sue pene.
Taci! So che cosa vuoi dirmi, vorresti addurre il fatto
che credevi solamente di creare lo strumento adatto
per sollevar l’uomo comune dal suo livello da coatto,
terra-terra, ad un essere capace d’intendere l’astratto
e trasformarsi così in protagonista del proprio riscatto.
E però, i ricchi parleranno sempre la lingua dei ricchi
mentre i poveri saranno sempre più trattati da micchi
non riuscendo a destreggiarsi bene nel codice tarocco
che fa sembrare chi non lo sa usare come uno sciocco.
Rispondi: ti sarebbe stato tanto difficile far lo sforzo
di spostarti linguisticamente di qualche chilometro
e andarti a cercare in Francesco d’Assisi quel rinforzo
ch’avrebbe sicuramente riportato allo spirito di Pietro,
al concetto che alla ricchezza bisogna dire: vade retro!,
il tuo ragionamento di cui non si capisce bene il metro?
Ma come, nel suo comprensibilissimo volgare umbro,
un po’ latineggiante è vero, il frate esprimeva il timbro
con cui parlare a tutto e a tutti, compresi gli uccelletti,
e tu ti sei messo a verseggiare come lupo a denti stretti
che non vuol far sentire che ringhia ai poveri capretti?
Ce l’avevi sotto gli occhi la lingua bell’e pronta all’uso,
potevi farne come ti pareva ogni tipologia d’abuso,
tirarla e stiracchiarla nel verso del fiorentino ingentilito
dai formalismi d’una corte colta e d’un potere politico
capace d’imporsi a baricentro dell’unità della nazione…
Tutto potevi fare e avevi la più ampia libertà d’azione,
invece, ahimé, ti mettesti supinamente a disposizione
di forze oscure, segreti occulti e concetti misteriosi
che hanno dato alla tua opera quei contorni fantasiosi
che ti portarono la gloria, ma che suonano fumosi:
infatti per capirne il senso han bisogno di una parafrase,
mentre le parole del Santo d’Assisi entran in tutte le case.
So bene che non è qui in discussione il tuo bel verso
e se insisto a farti a muso duro questo mio discorso
che trasforma la mia celeste veste in una pelle d’orso
è per farti capire come e perchè il senso andò disperso
della lingua popolare, il volgare, che ti è tanto avverso.
Ancora più grave è che per coprir il progetto perverso
mi hai messo mio malgrado al centro del tuo universo
facendomi apparire come una bacchettona che giudica
immorale la tua condotta terrena che fin troppo ludica
dovrebbe risuonare ad una donna ideale e così pudica
da guardarti dall’alto in basso con espressione abulica.
Che dovrei fare, strapparmi di dosso la celeste tunica,
oppure rivolgerti una solenne e alquanto dura predica
per il traviamento che necessitò di qualche cura medica?
Va bene che cadesti in prostrazione fisica e mentale
per la mia triste dipartita che tu, da comune mortale,
cercasti di superare cominciandoti ad ubriacare,
a gozzovigliare frequentando donne di malaffare…
devo continuare? Dài, forse è meglio lasciar stare.
A me sinceramente non importa proprio nulla
se hai cercato nel seno di qualche altra fanciulla
l’oblio dei sensi e la soddisfazion di ciò che frulla
nella mente di un uomo che con l’eros si trastulla
e poi accampa una giustificazione un po’ fasulla.
Coraggio, siamo entrati nel primo canto del Paradiso
quando gli angeli sopravvengono a far buon viso
al tuo cattivo gioco adducendo ad una ragazzata
il tuo furore giovanile e quel comportamento
cui, per volere di chi puote, danno una ramazzata
visto che per esser perdonati basta il pentimento.
Ed ora, se ti aggrada, cambiamo l’argomento…
Devo confessarti lo strano presentimento:
hai lasciato Virgilio, il tuo precedente Duce,
alla soglia del Paradiso e dell’accecante Luce
cui i tuoi occhi devono abituarsi poco a poco
per non restare abbacinati dal potente fuoco
che nei sette cieli splende e in spirito traduce
l’essenza dell’eterno che aleggia in questo loco
al quale pervenisti appena dal tuo viaggio truce.
Hai mollato lui perché non gli era concesso
di aver al cospetto del Padreterno l’accesso,
così ti ricordasti di me per ottener intercesso
e fare senza ostacoli nel paradiso l’ingresso.
Siccome presupponi che qui non sia concesso
di portarsi dietro il corpo e il proprio sesso,
m’hai trasfigurato in una specie di pesce lesso
e la mia natura femminile hai manomesso.
Dico io, già quand’ero sulla terra in vita
non hai azzardato di sfiorarmi con le dita
e m’annoi pure qui col tuo far da eremita?
Sappi che con te non mi sono mai divertita,
qualcuno sospettava che fossi un sodomita,
fatto sta che aspettandoti mi son spazientita,
più che un amante reale sembravi uno stilita.
Ora mi raggiungi confessandomi il misfatto
che mezzo mondo al femminile tu ti sei fatto
ma che il piacere fisico al punto t’ha assuefatto
da farti preferire un appagamento più astratto.
Ci risiamo? Io che già covavo un pensiero matto
dovrei di nuovo contentarmi dello scarno piatto
che mi offri, ovvero un desiderio insoddisfatto?
Il dente batte sempre là dove la lingua duole..
mi lamenterò in eterno per lui che non mi vuole!
Come volevasi dimostrare facesti dell’inferno
il primo luogo in cui amore fa rima con Averno!
amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
nel senso che chi è sensibile subito l’intende
il richiamo cui ci si abbandona lascivamente;
poi continuasti con parole assai stupende
per concluder con visioni assai più tremende
Amor ch’a nullo amato amar perdona
Non oso dire che la rima non sia buona,
anzi è ottima, non voglio far la criticona!
Ma avresti dovuta metterla materialmente
in pratica senza girarci intorno dolcemente
per alleviare alla poverella nel foco sofferente
le pene di colei che il proprio amor difende.
Ecco come recita la quartina chiaramente:
Amor, ch’a nullo amato amar perdona
mi prese del costui piacer sì forte
che, come vedi, ancor non m’abbandona
Amor condusse noi ad una morte…
Eccetera eccetera. Insomma ti par questo il modo
cui un Poeta deve ricorrere per arrivare al sodo?
Non appena lo spirito si mescola con la carne
e nelle vene fa ribollire delle passioni il sangue
ti schieri con la mentalità del triste benpensante
che non trova di meglio che perseguitar l’amante.
Ti pare allora bello condannare i poveri ragazzi
alle pene dell’inferno e a soffrire come dei pazzi
per aver seguito l’impulso amoroso e il desiderio
stuzzicati dal libro galeotto colpevole d’adulterio?
Non potevi, che so?, adottar qualch’altro criterio
al fine d’evitare d’immergerli nell’orrido putiferio?
Poi diciamocelo in confidenza, quella bella rima
avresti potuto dedicarla a me, addirittura prima
che il tuo foco mi paresse più freddo della brina.
Già, perché se c’è qualcuno che deve perdonare
colui che non sa amare, il ruolo a me devi lasciare.
Capisco
che interferisco
ma mi stupisco
che questo disco
con cui demolisco
il poema tuo prisco
con cui ci pulisco…
(Boccaccia mia statti zitta
non dar voce all’aria fritta
per non passare per guitta
ai posteri dà qualche dritta
per difendere la sottoscritta
da chi in versi se n’approfitta).
Dunque, dicevo… tornando a noi esseri pensanti…
Se le mie rimostranze ti sembreran troppo pesanti,
lo sono anche le tue rimette che suonano andanti
all’udito dei tuoi critici, ché ti giudicheranno in tanti.
Sarai dimenticato, stanne certo, per diversi secoli,
almeno finché la cultura sarà in mano agl’officianti
della Chiesa che della verità non tollerano i refoli
del vento che solleva le gonne dei preti baciapile
per i quali la Commedia è come un pesce d’Aprile.
Ci vorrà del tempo, e parecchio, per poter aprire
la mente e comprendere che il vero non ha prezzo:
è la tensione della verità che anch’io in te apprezzo.
Fu la tua poesia a fermare nella bolgia la tempesta
quando Francesca il racconto ti fece della funesta
disavventura che ai giovani amanti costò la testa
trascinandoli dal Cerbero che dell’anime fa festa.
Ma questa ansiosa ricerca del vero ad ogni costo,
svela della poesia e dell’arte il senso più nascosto,
costi quel che costi al poeta che si esprime tosto.
Mentre il tuo Virgilio al poter s’inchina, tu Tosco
ten vai così parlando onesto – pur rischiando il posto
come Cacciaguida nel seguente canto ha risposto:
…Coscienza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.
Chè se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.
Come non ammirare il coraggio con cui esponi
ai tuoi contemporanei del reale l’interpretazioni,
e più ti avvicini al giusto e al vero e più fa male
il tuo nobile messaggio come sulla ferita il sale!
Resta tuttavia qualche ipocrisia che va chiarita
nella tua visione del mondo che si è accanita
contro i due giovani amanti rei d’aver ceduto
alla brama dei sensi, mentre hai ben bensato
di salvare lo stilnovista Giacomo da Lentini
che svolazza liberamente nell’ultimo cerchio
del purgatorio nonostante coltivi pensierini
lussuriosi, ma usando la poesia a coperchio
con cui cinguetta come sanno fare i canarini.
Due pesi adottasti incomprensibilmente:
uno per punire il tradimento ed il peccato,
l’altro a salvaguardia del verseggiare baciato
in rima, come se fosse un gioco innocente
nascondere l’erotismo nel verso impenitente.
Il sospetto è che il Notaro rimatore siculo
serviva da modello letterario e l’hai beato;
mentre agl’innamoratini tu bruciasti il culo…
chiedo scusa se del bello stile non mi curo!,
per prendere le distanze dal peccator che sei
quando t’elevi a giudice morale come i farisei.
Bravo!
Poi come corpo morto cade sei svenuto
alla vista di quanto dolore hai provocato
come uno che la fiasca intera s’è bevuto
e troppo tardi s’accorge d’aver esagerato.
Ora però lasciamo questo discorso e andiamo
in un cerchio più alto ché questo in cui siamo
la luce divina a stento irrora la tenebra interiore,
su, muoviamoci, il giorno non dura in eterno
e tu non potrai qui restare per molte altre ore:
presto farai ritorno donde venisti dall’esterno
poiché t’è concessa solo una sosta nel paterno
Regno del Bene per ammirar il divino governo.
Adesso per piacere lo spirito tieni bene fermo:
verso l’Empireo dell’alto cielo stiamo salendo
e tu non fai altro che guardarmi con quell’aria
interrogativa del curioso dell’origine planetaria
che vuol indagar la natura reale o immaginaria
di ciò che pare intuibile solo per via visionaria.
Ad esempio è questa la tua domanda primaria:
vuoi sapere perché la sostanza della Luna varia
a seconda della densità e dei vuoti d’atmosfera,
del motivo per cui a chiazze essa sembra chiara
ma poi quando è piena rivela una macchia nera?
Ebbene sappi: le macchie della Luna son materia
degli Angeli che volteggiano dalla mattina a sera
gironzolando pei cieli con trombette e sonagliera
ad annunciar che l’Altissimo è Signor della voliera
in cui non fa mai inverno ma è sempre primavera.
Dimmi adesso se della mia risposta sei contento
e sei hai capito dei meccanismi il funzionamento
che fa del cielo un marchingegno per il piacimento
di Colui che ci ha creati e che ci dà sostentamento
in modo che la terra se ne stia ben ferma al centro,
che non si muova a causa di qualche sbandamento.
Non ti sbagliare nel riportar su carta le mie parole:
non ho detto che la terra gira e che si muove il sole.
E a proposito d’Angeli non ho detto che con l’alito
spingono le nubi fin sul Trono: ho parlato d’anelito
celeste, non fiato dai bronchi, insomma, ma spirito.
E con questo spero che tu abbia finalmente capito
che le mie risposte hanno un valore solo simbolico
e che non devi prenderle come fai in modo esplicito.
Ciò detto, mentre ci appropinquiamo all’altro Cielo,
fammi capire perché concludi sempre le tre cantiche
con la parola “stelle” che mi da la sensazione di gelo
perché fa ricicciar fuori vecchie teorie aristoteliche.
e quindi uscimmo a riveder le stelle
puro e disposto a salire alle stelle
l’amor che move il sole e l’altre stelle
Scusa se mi discosto un poco dal ruolo che mi desti,
ma tu pensi davvero di trovare un Dio in tutti questi
universi che compongono il Creato e in cui nascosti
si sono gli angeli e i demoni che invece han riposto
i segreti in seno alla materia come frutti in un cesto
e dall’esplosione primordiale non hanno più risposto
perché si son fusi con la polvere e con tutto il resto?
Tu pensi davvero che esista uno spirito individuale,
l’anima del singolo, e non piuttosto una forza vitale
che si esprime attraverso l’evoluzione universale
in cui il particolare è contenuto astratto e generale?
Sei così ottuso da pensar che il caduco sia
la parte che bisogna prima o poi buttare via
e non invero la sua stessa proiezione materiale
come il seme che contiene l’idea del diventare?
Fammi capire bene come stanno le cose perché
se vai in cerca di Dio laddove però Lui non c’è,
non troverai altro che il deserto – peggio per te.
Quindi, invece di innalzare cori alle stelle
come un bambino che crede che le ciambelle
col buco sian piene fuori e dentro senza nulla,
torna coi piedi per terra, abbandona la citrulla
ipotesi che anima e corpo sian fin dalla culla
separati: non è così, te lo dice una fanciulla.
La teoria del dualismo cielo-terra è una burla
con cui Dio gioca a nascondino con chi urla
“tana” prima di vederlo e non capisce ch’è fasulla,
perché niente si crea e niente alla fin s’annulla.
Del resto se mi hai trascinato nel tuo viaggio,
o meglio nel volo pindarico che hai sognato,
non è per prendere un fantasma in ostaggio:
la verità è che io rappresento il personaggio
che ti riporta dall’empireo al terreno arato,
ti fa stare al suolo sempre saldo e ancorato
per non perdere di vista le realtà e lo stato
in cui versa l’umanità vittima del peccato.
Ti smarriresti nel vortice in cui sei entrato
e malediresti il giorno stesso in cui sei nato
se non avessi al tuo fianco chi t’offre aiuto
ricordandoti sempre l’umanissimo tuo stato.
Sinceramente non mi convince il modo
con cui m’esprimesti il tuo ringraziamento:
mi fai sembrare come giuggiola nel brodo
che dimendica decenza di comportamento
mettendosi a gridar con te: o come godo!
Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’
fra me, ‘dille’, dicea, ‘a la mia donna
che mi diseta con le dolci stille’.
Falla subito finita con queste “dolci stille”,
non sei un lattante che vuole le mammelle,
se sproloqui le parole trova un po’ più belle,
altrimenti sei solo fumo che non fa scintille.
Quanto agli Spiriti Amanti che incontriamo appesso…
Guarda avanti, non starmi a rimirar come se adesso
mi trovassi tanto più bella da farti pensare al sesso!
Siamo nel cielo di Venere, la dea che si crede amorale
ma che invece contiene la forza motrice universale..
Beh, potevi provarci quand’ero ancora un essere vitale?
Ma ormai è troppo tardi, Venere s’eclissa con il giorno,
e pure io, caro mio, non vedo l’ora di togliermiti di torno!
(E fermo con le mani che qui non è ammesso il porno!)
Oppure pensi che al poeta tutto quanto sia concesso,
anche di fremer e spasimar d’amore come un ossesso?
No, caro il mio Dantuccio, mi sa che ti sbagli di grosso,
al poeta la vita non riserva altro che il più duro osso:
il suo destino è quello dalla memoria d’essere rimosso!
Ma ora credo che sia venuto finalmente il tempo
d’esprimerti ancor più chiaramente quel che penso
di questo tuo viaggio ch’io ritengo di pura fantasia
con cui però vuoi dare un senso politico alla poesia.
Che io realmente non esista, insomma che non ci sia
se non nella tua mente d’artista, di pittore e narratore
è un dato di fatto incontrovertibile, perché sei autore
solo di un sogno che hai sognato nelle notturne ore.
Il passante t’osserva dal vetro immerso nell’oscuro
della stanza al desco illuminato da un solitario lume
scrivere cercando d’erodere la superficie del futuro,
come se la realtà fosse un luogo fin troppo insicuro
per chi altrove va in cerca di qualcosa di duraturo.
Sì, ma dove se non nell’illusione
dell’eterno che si rivela
nel volo di una mosca
nel ronzio della zanzara
nel crepitio del fuoco
nel pianto di un neonato
nel sogno mai sognato
nell’amore a nulla amato
mentre la notte incipiente
raccoglie nel suo recipiente
parole che la mente
pronuncia ma non sente
come pensiero mai pensato
o l’oggetto di un concetto
da un soggetto divinizzato
di mistero mai svelato
di un segreto ormai rinchiuso
nel vuoto di uno spazio
che si apre all’infinito
poi ricade su sè stesso
come un tappo di bottiglia
che da solo s’è stappato
per la forza che contiene
lo spirito che tiene
insieme il corpo
che è già morto
al primo parto
così anche tu
soffuso e rinchiuso
nel mondo interiore
senti un lamento
lontano e tremendo
è il tuo cuore che batte
con ritmo furioso
ma è solo l’idea
che spinge la vita
all’estremo confine
e poi si riprende
la parte che spetta
all’uomo che solo
osa il suo volo
nell’infinito
silenzio
Qual è colui che sognando vede,
che dopo ‘l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visione, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;
ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.
Io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.
E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
l’aspetto mio col valore infinito.
Il sommo poeta finalmente si addormenta
allo scrittoio: la sua giornata è stata lunga
e faticosa, un pensiero ancora lo tormenta
nell’incerto riposo di una notte che prolunga
l’ombra sull’umano fare e disfare della vita.
Ed io, a questo punto, che cosa vuoi che dica
mentre la candela si consuma e lentamente
l’inchiostro come un grumo si rapprende
come se nelle vene scorresse la sabbia
d’una clessidra girata e rigirata con rabbia
fino a confondere la notte col giorno
e la fiamma dell’inferno con l’eterno
più puro e trasparente della sua luce?
Ora dorme nella quiete che non sente
il dolore che colpisce l’essere esistente
e che nel cuore in un nodo si traduce
che stringe il petto, l’apre e lo ricuce.
Il poeta svanisce nelle sue parole,
si smarrisce e torna quando vuole
come ogni giorno fa pure il sole
per irrorar le menti come aiuole
in cui sboccia sempre un fiore.
Non arrenderti poeta
se la tua anima è smarrita,
non arrenderti alla critica,
sembra dirti questa amica
che ora dolcemente ti saluta
e nel sonno eterno resta muta.
Ma resta un barlume di speranza
come un richiamo in lontananza
una specie di rumore di fondo
che assorda la mente confusa
spezza il cuore che alla rinfusa
accumula il tempo di sabbia
trasportata sulle dune desertiche
di mari e di nebbie sulla spiaggia
in cui fummo e in cui saremo
forse ancora o per sempre
come un raggio di sole
che diventa arcobaleno
prima della notte che viene
a colmare il grande oceano
in cui tutti insieme
ci ritroveremo
nel male e nel bene
germoglio d’un seme
che ora va e ora viene
nella natura che freme
di visioni ultraterrene
del tuo corpo che geme
nelle ore più estreme.