Quando si parla di teatro e arti visive, si rischia di incappare in un fuorviante pleonasmo. Fin dalla notte dei tempi delle prime rappresentazioni allegoriche, il teatro è sintesi di tutte le arti, a maggior ragione di quelle “visive”, – oltre che musica e canto. Melpomene, protettrice e ispiratrice dela tragedia, è la più ospitale tra le Muse poiché apre la sua Casa, il théatron (cioé il luogo in cui si vede), alle altre espressioni artistiche. Del resto, la tragedia arcaica non è che una “messa in scena”, un inganno visivo come sostiene Untersteiner a proposito del significato religioso di tragos: “Divinità e sacrificante celebrano insieme la festa a un comune banchetto, dove tutti diventano, in una certa misura, una carne sola, col dividersi la medesima carne… In un secondo tempo questo rito doveva compiersi per mezzo di un travestimento: esseri umani rivestiti della protome di un caprone”. (Mario Untersteiner, Le origini della tragedia e del tragico, Istituto Editoriale Cisalpino, Milano 1984 p. 36).
La messa in scena, l’inganno ottico con cui l’uomo illude la divinità circa la spartizione del “capro espiatorio”, ha precorso le forme teatrali della rappresentazione: al rito dell’espiazione col lamento del “capro” come voce monologante, Eschilo aggiunse l’antagonista, mediante l’invenzione drammaturgica del dialogo. Nel pensiero platonico, il dialogo teatrale ha assunto la forma della “dialettica” filosofica: uno strumento logico-induttivo che, attraverso la “messa in scena” di diversi aspetti della realtà e dei “punti di vista”, porta al raggiungimento della verità. Se la maiuetica socratica è il procedimento filosofico per far “partorire” la verità già esistente attraverso il dialogo, nella dialettica platonica le arti visive, apparentemente schiacciate dall’importanza del logos, del ragionamento dia-logico, si prendono nel Simposio una rivincita. Nel mito della caverna gli schiavi vedono solo le ombre della realtà proiettate sui muri e finiscono per confondere l’essere con la sua apparenza fenomenica.
La premessa spiega che il teatro, anche quando lo si prende come un mostro “verbale”, sproloquiante, finisce per includere le arti visive poiché le parole non sono altro che segni (o segnali come sostiene Wittgenstein) evocatrici esse stesse di immagini “situazionali” o “contestuali”. Basti pensare agli ideogrammi che tanto si avvicinano alle “idee” platoniche nella loro sintesi di segno e significato.
E’ per questo che nel corso della storia umana, fino all’avvento della fotografia e del cinema, teatro e arti visive – architettura e pittura nella loro sintesi scenografica – sono stati pressoché indossolubili. La grande stagione della pittura rinascimentale è allora una forma di rappresentazione teatrale. Così come la scenografia prospettica del Teatro Palladio di Vicenza formalizza teatralmente l’innovazione della terza dimensione spaziale, creando non solo lo sfondo pittorico, ma la compenetrazione di arte e società attraverso le “vie di fuga” della prospettiva teatrale verso il mondo esterno: la città. Così come drammaturgicamente previsto dai finali “aperti” alla società reale de La mandragola (1519) del Machiavelli e La cortigiana (1925) di Pietro Aretino.
Le arti visive – la pittura, la scultura, l’architettura – non sono nel Rinascimento un orpello o un abbellimento formalistico della rappresentazione teatrale. Esse assumono nel teatro rinascimentale la stessa funzione ed importanza che ha oggi, per fare un esempio attuale, la fotografia cinematografica nei confronti della sceneggiatura: i personaggi vengono messi in condizione di muoversi, interagire rispetto ad un contesto, ad un “fondale” che paradossalmente sfonda le mura del teatro stesso proiettandosi nel mondo; o, addirittura, oniricamente, oltre il mondo, nel sogno e nella fantasia. Tutto ciò avviene appunto anche nel cinema con la macchina da presa che coglie il personaggio nel suo esistenziale essere-nel-mondo, mentre nel teatro rinascimentale e barocco sono le macchine teatrali che, cambiando le scene e creando ambienti, effetti visivi e sonori fanno sì che il dramma “recitato” si trasformi in un fluire di immagini dove parole, gesti, suoni e forme si fondono nella drammaturgia. Non a caso tra i capolavori del teatro barocco va citato il manuale di scenotecnica del 1567 di Niccolò Sabbatini Scene e macchine teatrali , l’opera di architettura e ingegneria teatrale che ha fatto evolvere il teatro dal XVII al XIX secolo.
Naturalmente il cinema ha posto il teatro in un apparente stato di sudditanza psicologica per quanto riguarda l’aspetto formale-visivo. Infatti il cinema ha sfruttato il dialogo teatrale proponendo al contempo una perfetta rappresentazione visiva del mondo (e dello sfondo naturale o sociale). Del resto, un film fatto di sole immagini raramente raggiunge validità drammaturgica limitandosi nella stragrande maggioranza dei casi al documentario. La crisi del teatro nei confronti della cosiddetta settima arte è, comunque, durata poco, anche perché il cinema – ricordiamo la proiezione delle ombre platoniche – è una prosecuzione del teatro (dialogo) con altri mezzi tecnici che consentono essenzialmente la riproducibilità ed una scenografia “accuratamente” realistica. Di conseguenza, i tentativi di inserimento del cinema nella rappresentazione teatrale, mediante le proiezioni, non hanno mai dato grandi risultati artistici: esiste infatti una forte tradizione di cinema teatrale, penso ad esempio a Bergman, ma non si può assolutamente parlare di un teatro cinematografico, neppure in piena era digitale che coi proiettori portatili e relative tecnologie potrebbe imporsi come un nuovo modo di fare teatro. E’ avvenuto invece il contrario: nella concorrenza col cinema, il teatro ha come recuperato la sua originale essenza di “dialogo con Dio”, cioé di ricerca esistenziale, filosofica della verità. Tant’è che la nuova disciplina di Teatro digitale può applicarsi alla ripresa e alla riproduzione, ma non ha (ancora) alcun effetto artistico sensibile sulla rappresentazione teatrale.
Negli Anni ’70, allorché la Sperimentazione fu attenta (e tentata) alle innovazioni tecnologiche, si è infatti assistito ad un recupero totale dell’essenza del teatro attraverso due tendenze solo apparentemente contrapposte. Da un lato, il teatro di drammaturgia si è come spogliato, messo a nudo, tralasciando e dando per scontato l’aspetto visivo, al fine di rappresentare il personaggio nel vuoto più totale. Proprio come il Benigni del “Cioni Mario” – correva l’anno 1973 all’Alberichino di Roma – che alla luce di una flebile lampadina con un fazzoletto stropicciato come unico elemento scenografico, dava inizio alla sua straordinaria carriera. Essenzialismo portato alle estreme conseguenze drammaturgiche da Giovanni Testori che giunse in una sua regia ad impedire ai personaggi – bloccati in una sorta di fermo immagine filmico – qualsiasi movimento se non quello delle labbra per declamare. Ma al contempo è degli Anni ’70 la riproposta della tradizione barocca del teatro delle “macchine teatrali” con l’Orlando furioso nel memorabile allestimento di Luca Ronconi che, tra la possibilità di stravolgere il palcoscenico attribuendogli una funzionalità cinematografica e quella di “tornare all’antico”, cioè trasformare il teatro in una macchina teatrale visionaria, futurista eppure barocca, ha genialmente optato per la soluzione scenica più affine alla drammaturgia , alla teatralità del poema.
Queste due linee degli Anni ’70, – quella esistenziale o meglio essenziale, volta a proporre il teatro in tutta la sua nudità visiva e pienezza di significati, e l’altra barocca che riscopre la funzione e la fruizione del “grande spettacolo” bypassando il cinema con l’uso delle “macchine teatrali”, – hanno in realtà liberato il campo, sul nascere, da un equivoco circa l’uso delle tecnologie. Si è così rilanciato l’aspetto “visivo” del teatro, che in realtà è più luogo dell’immaginazione che della fedele riproduzione cinematografica, ritornando all’antico, al “marchingegno”. Va da sé che i tentativi pure esperiti di utilizzare ora la fotografia, ora il laser, ora la proiezione non hanno modificato il livello degli spettacoli che sono rimasti belli o brutti indipendentemente dall’ulteriore apporto delle arti visive – al di là di ciò che il teatro stesso per sua intrinseca natura già prevede e consente.
Enrico Bernard