Personal shopper è un corpo da toccare, da scoprire, da sondare, sebbene si presenti come qualcosa di effimero, sfumabile, inafferrabile. È il corpo di Maureen (Kristen Stewart), spesso messo a nudo, fisicamente e dalla macchina da presa di Olivier Assasys premiata con il premio alla miglior regia all’ultimo Festival di Cannes: opalescente ma concreto. Un corpo che cambia, indossa abiti diversi, realizzandosi dentro una realtà che le sfugge, e tenta di capirsi, definirsi. È essenzialmente per questo motivo che Personal Shopper è un film di fantasmi: non tanto, e non solo, perché l’obiettivo di Maureen, personal shopper della diva Kyra (Nora von Waldstätten), ma principalmente “medium”, è quello di aspettare un segno che provenga da un possibile aldilà del fratello gemello Lewis, morto per un attacco di cuore a causa di una malformazione di cui anche lei è affetta. “Attendere” è un verbo di per sé fantasmatico, privo di solidità, di sicurezze, di materialità e consistenza: è in questa attesa che vaga la Kristen Stewart di Maureen, in una Parigi che fa solo da sfondo, e in una cornice gotica da ghost story che sposa i codici, dalla fotografia alla musica, e le tensioni narrative del genere, per isolare sempre più il suo personaggio, fino all’epilogo finale.
Di fatto Maureen diventa sempre più una “medium” della realtà stessa: interagisce con il fidanzato, lontano per lavoro, solo attraverso uno schermo del pc; imbastisce un dialogo con uno “sconosciuto” a suon di messaggi dal suo I-Phone che da un certo punto in poi del film diventa presenza costante e quasi ingombrante; non vede quasi mai la sua datrice di lavoro con cui spesso comunica per telefono o con post-it; parla con la ex fidanzata del fratello, ma senza conoscerla veramente. Così il film di Assays indaga la paura del mistero, il bisogno di un aldilà che sia porto sicuro dove riporre speranze e cicatrizzare i dolori di certe perdite, pone l’individuo senza identità, in relazione vacue, solo, in attesa di ricercare se stesso. È un film-corpo, si diceva: latteo, pallido, e mutevole. Un corpo che si macchia del sangue del thriller o che perde il respiro vitale per la paura generata dalle atmosfere “ghost” solo per ricordarci che è mistero da sondare e svestire, non solo attraverso i sensi, ma con atti di fede e speranza, che sono gli stessi della protagonista. A volte l’esercizio resta troppo criptico o intellettuale, nonostante la messinscena fulgida, sperimentale ma realistica, orchestrata dal regista francese tenti di plasmare e proiettare vividamente questa materia ectoplasmatica nei confini di uno schermo cinematografico. Ma forse è proprio questa la natura del film, essere un corpo-fantasma teso a trasformare lo stesso spettatore: avviene quando Maureen ci guarda, intercetta il nostro sguardo che l’ha guardata a lungo senza farsi accorgere. Sei tu, o sono solo io? Il cinema, e l’arte, sono l’attesa di un segno che fughi la realtà. E dopo dissolvenze verso un nero che atterrisce e sembra non lasciare scampo, arriva sempre una dissolvenza in bianco. Basta solo aspettare.
Voto 8 su 10
Simone Santi Amantini