Verona, Arena, fino al 19 agosto 2017
Il 95° Opera Festival prosegue con Madama Butterfly, titolo apparso in nove stagioni dal 1978 ad oggi. L’allestimento risale al 2004, scene e regia di Franco Zeffirelli. Chi lo conosce saprà che la sua estetica trova alfa e omega nell’iperrealismo nell’horror vacui. Rimane il più sobrio dei lavori per Verona, complice l’ambientazione domestica. Una spoglia collina rocciosa si apre a svelare la casa “a soffietto” della sventurata geisha, sedotta e abbandonata dal Pinkerton colonizzatore che torna senza ritegno ad annunciarle le nuove nozze e, già che c’è, a prendersi il figlio. Da una parte l’Occidente e dall’altro i gesti plateali dei giapponesi, profluvio di ventagli, ombrellini, maniche di kimono a celare trasalimenti, in una teatralità rassicurante, asciutta, priva di tensioni e sentimentalismi esasperati, comprensibile a qualsivoglia target. Sul palco si susseguono gli sgargianti costumi del premio Oscar Emi Wada, già curatrice della magnifica Turandot (2010), in un gradevole colpo d’occhio che trova sublime appagamento, quasi antica stampa nipponica, nell’ingresso di Cio-Cio-San circondata dalle amiche. Il mare e la luna rivivono alle spalle dei due sposini, con luccichii inaspettati e sempre puntuali disegni luci. Pleonastico riempitivo del coro a bocca chiusa, i movimenti coreografici da parte, presumo, degli spiriti degli avi giunti a tormentare Butterfly per aver rinnegato la religione d’origine.
Alla guida dell’orchestra veronese Jader Bignamini, specialista del repertorio pucciniano. La personale lettura volge verso sfumature sinfoniche, ricercando una tavolozza di colori pari a quelli visibili in scena, ora sgargianti ora cupi. Quell’intimismo decadente prescritto da Illica e Giacosa rivive nella direzione di Bignamini, ponendosi quasi in ascolto dei sentimenti e invero senza coprire mai le voci dei cantanti. Su una complessiva linea di misurata compostezza s’innestano, grazie all’attenta scelta di dinamiche e timbriche pertinenti, i nervosismi, le illusioni e le delusioni dei miseri personaggi.
Disomogenea la compagnia. Silvia Beltrami incanta con una Suzuki dalla voce sicura, omogenea e ben tornita, accompagnata da ottime doti recitative. Molto bene anche lo Sharpless di Alessandro Corbelli, sempre intonato, puntuale, abile nei volumi e nel fraseggio. Oksana Dyka possiede invece voce troppo grande per Butterfly, quindicenne dalle mille delicate nuances qui messe poco in risalto. La predisposizione ad altri ruoli scalpita sotto una linea di canto discontinua e superficiale, costellata da cali d’intonazione, fraseggio migliorabile e acuti sforzati. Nel registro grave rasenta il parlato, risultando troppo verista per un dramma che non lo è. Marcello Giordani è un Pinkerton dal piglio sicuro, ma non basta la maschia presenza a celare una vocalità fumosa, priva anch’essa di piegarsi alle sfumature sentimentali, seppur fugaci, del personaggio. Gli acuti sono sovente forzati e il registro medio-grave non sempre centrato, più interessato a evidenziarne la natura che l’essenza. Taglienti al punto giusto il Goro di Francesco Pittari, precisi il principe Yamadori di Nicolò Ceriani e la Kate di Alice Marin.
Il coro, preparato da Vito Lombardi, dimostra ancora una volta l’eccellenza. Al termine del non facile a bocca chiusa, il pubblico gli tributa commosso uno scrosciante applauso.
Consensi generali alla prima dell’8 luglio, con ovazioni per Dyka, Beltrami, Giordani e Bignamini.
Luca Benvenuti