Il Teatro Stabile di Catania mette in scena dal 17 al 29 ottobre 2017, alla sala Verga
Una prima apparizione, poi il buio. Così si mostrano per la prima volta al pubblico i Personaggi pirandelliani, avvolti in quell’alone di mistero e di enigma che si porteranno dietro per tutta la rappresentazione. Sono in cerca di un autore che però è lì, presente, non sotto forma di entità corporea bensì di spirito. Un ectoplasma che scrivendo a macchina ogni singola battuta infonde la vita alle sue creature, perché è solo con la parola pronunciata e l’azione che esse vivranno.
Intanto, giungono uno ad uno gli Attori, tutti concentrati sull’imminente debutto; no, non si tratta della messa in scena de “Il giuoco delle parti” ma di un truce dramma sul femminicidio. La compagnia è quella che potremmo trovare in un teatro qualsiasi, formatasi unendo attori provenienti da contesti, esperienze e realtà diverse, tanto che uno ha un’inflessione romana e un’altra quella catanese, in una dimensione temporale che è quella odierna, come si evince dai costumi.
Disposti sul crudo palcoscenico del teatro Verga aspettano d’iniziare, intanto che la tensione si fa sempre più palpabile per un costume sbagliato o per la mancanza di un monologo.
A un certo punto, nel bel mezzo delle prove piombano sulla scena i Personaggi, fieri di voler rappresentare il loro dramma diventando da quel momento in poi carne e sangue vivi.
Una regia, quella di Michele Placido, che se da una parte snellisce l’opera eliminando alcune battute dall’altra tiene fede alla didascalia iniziale dell’autore, per cui non ci sarà una suddivisione in atti ma in questo caso un’unica lunga azione ininterrotta. Questo spiega il motivo per cui in scena troviamo sin da subito una vasca rossa e una scala, due elementi che sono funzionali alla rappresentazione dei Personaggi ma che sono usati inizialmente dalla compagnia. Siamo di fronte a due contesti, surreali, che viaggiano paralleli, due dimensioni che si sfiorano senza mai fondersi veramente, con proprie regole e propri linguaggi.
Tutto nasce dall’urgenza di esistere, di essere realtà concreta non solo testo scritto, ecco dunque che la forza prorompente del racconto prende forma, con la Figliastra che rigurgita tutta la sua sofferenza e il Padre che tenta di nascondere la sua vergogna fra le lacrime di una madre avvilita.
Dajana Roncione usa tutte le note più scure e profonde del registro vocale per dipingere con verità le vicende che ha subìto, mentre si appella a una risata beffarda per tentare di redimersi non esitando mai neanche davanti ai racconti più scabrosi.
Guai Jelo è la madre dolorosa per eccellenza, alimenta lo strazio per i figli con ogni fibra che ha in corpo, sempre composta mai traboccante nei gesti e nel verbo e per questo percepibile a ogni livello sensoriale. Anche quelle poche battute in dialetto usate per raccontare la sua giovinezza, fatta di miseria, servono a scandirne l’infelicità, la stessa che la figlia intona nella canzone U sciccareddu, arrivando allo spettatore come un pugno nello stomaco. La Jelo è immensa in una realtà lontana dal suo modo di fare teatro che per questo la elogia doppiamente e allo stesso tempo commuovente come solo una grande interprete sa essere, senza mai uscire dalla gabbia metaforica in cui è chiusa.
Di fronte a questa grande potenza femminile il ruolo del Padre si annacqua, Michele Placido punta all’inizio in maniera quasi paradossale a stemperare la tensione attraverso una leggerezza nel tono e nei gesti pratici che sottolineano costantemente le parole, ma alla fine sarà la drammaticità ad avere la meglio. Il testo scenico prevarica la volontà dei Personaggi e degli attori, basti pensare al Figlio che rifiuta consciamente di farne parte ma che suo malgrado si trova incatenato a esso. La complessità del personaggio è legata al modo in cui si relaziona alla Madre e alla Figliastra, vivendo in maniera introversa il trauma dell’abbandono e l’incapacità di rapportarsi ai fratelli. La sua è una presenza contenuta ma allo stesso tempo ben resa da Luca Iacono, che non smette mai di stupirci. Così, come meraviglia la bravura de la Bambina (Paola Mita) e del Giovinetto (Flavio Palmeri), non soltanto perché vivono la scena in maniera silente ma anche perché le uniche azioni che sono chiamati a compiere avvengono solo sul finale, richiedendo ai giovani attori un grande sforzo di concentrazione.
Esilarante la Madama Pace di Luana Toscano, la quale sembra uscita da un film di Almodóvar per quella sua sfacciataggine e per quel modo irriverente di sfoggiare un caschetto platino intanto che circuisce la sua vittima plagiandola con il dolce suono della lingua spagnola.
E gli Attori? Cercano di appropriarsi del loro palcoscenico, come quando la Prima attrice (Egle Doria) e il Primo attore (Luigi Tabita) impersonano la Figliastra e il Padre, ma i Personaggi sono ingombranti, vogliano e devono raccontare il loro dramma. L’unico che cerca di gestirli e talvolta assecondarli è il Capocomico, che in questa versione diventa il Regista, interpretato da Silvio Laviano, il quale è irrequieto sulla scena, tutto permeato da una recitazione convulsa che strizza l’occhio all’improvvisazione, intanto che all’orecchio stride la battuta ”Azione!”, un termine proprio del linguaggio cinematografico, usato per far proseguire la messa in scena. Anche il suggeritore, figura tipica di un tempo che fu, si trasforma nell’Assistente alla regia (Giorgia Boscarino), da una parte fida collaboratrice e dall’altra donna di piglio. A completare il cast troviamo l’Attrice giovane, Ludovica Calabrese; l’Attore giovane Federico Fiorenza; la Seconda donna Marina La Placa e il Direttore di scena Antonio Ferro.
Fra i tanti testi di Luigi Pirandello a cui il Teatro Stabile di Catania ha reso omaggio negli anni, i Sei personaggi in cerca d’autore è stato uno di quelli meno presenti all’interno dei cartelloni, l’unica volta che venne rappresentato fu nella stagione 1965/1966 con la regia di Edmo Fenoglio, una ragione in più per andare a vederlo oltre che per la bravura di tutti gli interpreti e per una regia che ha saputo nel complesso rendere le oltre due ore di spettacolo godibili, senza mai stancare o annoiare.
Laura Cavallaro