Trieste, Teatro Stabile Sloveno, Sala del Ridotto. Dal 12 gennaio al 6 febbraio 2018 (11 recite)
Fin dalle prime battute de “I bei giorni di Aranjuez”, del drammaturgo carinziano Peter Handke, si capisce che il dialogo appena iniziato fra un Uomo e una Donna dal nome indefinito è regolato da regole chiare e condivise che verranno ricordate con pacatezza e una punta di ironia dall’altro ogniqualvolta uno dei due se ne dimenticherà o tenterà di aggirarle.
Non importa dove si trovino, né chi siano; tutto si svolge in una bella e tranquilla giornata estiva, di fatto fuori dal tempo e dallo spazio.
Lo spettatore assiste a qualcosa che assomiglia a un delicatissimo cristallo, un frammento di eternità che si apre per un tempo ridotto al minimo e non permette di essere violato nemmeno con un fiato che costringa a ripensare al quotidiano.
È un tempo sospeso, che rende aeree le parole pronunciate dai due personaggi in un confronto attraverso il quale si riconosce un rapporto intimo, caratterizzato da un rispetto profondo, ma soprattutto da una comune capacità di creare un gioco verbale a due in cui non si deve mai far cadere l’ideale palla a terra, perché lo scopo finale è raggiungere assieme una pace e una serenità comune: si vince entrambi o non si vince.
Anche scrivendone si avverte il pericolo di banalizzare qualcosa di prezioso, di atterrare pericolosamente su una concretezza distruttiva che rompa l’incanto generato da un testo interpretato in modo magistrale da Nataša Barbara Gračner e Ivo Ban che non si allontanano mai da questa situazione sospesa, comodamente seduti su due poltrone da giardino separate da un tavolo con due bicchieri e una caraffa d’acqua. Lui ha davanti a sé dei fogli e una matita su cui non registra quel che viene detto da lei, ma traccia delle linee, abbozza dei disegni che solo loro vedranno e che servono a definire meglio, alla donna o a se stesso, qualche passo del proprio racconto. C’è dell’erba intorno a loro e otto specchi rettangolari, alcuni appoggiati, altri sospesi intorno.
L’ascolto reciproco aleggia creando quasi uno spazio magico che permette, prima all’una, poi all’altro di condividere ricordi di un passato anche lontano, ancora una volta indefinito.
È lui a condurre una conversazione che lei non subisce: si tratta di un incontro fra pari in cui a denudarsi sono le anime e non i corpi, permettendo così all’Eros di esprimersi appieno.
Nella bolla creata da questa rapsodia poetica il Teatro appare come una finestra sul trascendente, inteso in senso non religioso né fideistico, offerta a ciascuno a condizione di affacciarvisi assieme ad altri, conosciuti o meno poco importa, affinché si possa ascoltare la propria interiorità più intima a partire dalla prospettiva determinata da una specifica visuale attraverso le parole dell’Altro da sé.
Perché tutto ciò sia possibile è necessario accostarvisi in modo adeguato. Ecco allora che la regia di Igor Pison non si limita allo spettacolo e, con attenzione e grande finezza, propone al pubblico di accedere in sala dalla parte riservata all’ingresso in scena degli artisti, dopo essere passati per una
“stanza di decompressione per lo spirito” nella quale, tra musica ascoltata individualmente e numerose fotografie proiettate sulla parete, in modo accogliente e tranquillo, si ha la possibilità di lasciar fuori “i metalli” che appesantiscono la nostra quotidianità.
Paola Pini