Trieste, Politeama Rossetti – Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Sala Assicurazioni Generali, 16 gennaio 2018
I classici hanno ancora qualcosa da dirci?
Primo Levi, detenuto a Monowitz, campo satellite di Auschwitz, avrebbe detto di sì, perché la presenza nella memoria di interi canti della Divina Commedia contribuirono a dargli la forza per sopravvivere mantenendo in vita un’umanità violentemente messa in pericolo giorno dopo giorno.
È possibile allora partire da Virgilio per pensare a Dante, passando attraverso la lingua armena, il serbo dei Consigli a un giovane poeta di Danilo Kiš, il canto delle voci bizantine o di un coro che, volgendo le spalle al pubblico intona il Funeral Canticle del contemporaneo John Tavener.
Il mondo cambia ma in fondo è sempre uguale, governato com’è da un’umanità che non si modifica nella sua essenza; come già altre popolazioni prima e dopo di loro, anche i latini costruirono la “Pax Romana” attraverso il trasferimento forzato di intere popolazioni per colonizzare i territori brutalmente conquistati nell’ “inarrestabile” espansione che, ad un certo punto, come non ha mai smesso di accadere nei millenni, ebbe termine.
Nello sfarzo dell’Età Augustea si annidavano i germi del crollo dell’Impero Romano e forse per questo, il maggiore dei poeti di quell’epoca, dopo aver lavorato per dieci anni alla realizzazione dell’Eneide fu preso dal desiderio di distruggerla.
Sottotraccia emerge il difficile e faticoso rapporto tra l’autorità, espressione del potere dominante, e l’artista, in particolare il poeta, che attraverso la propria opera, a volte dura e sconvolgente aiuta a far intravedere la realtà più cruda attraverso il dono, pagato a caro prezzo, della fantasia.
Ora, nell’essenza, quanto possono essere diverse le riflessioni di Amitav Gosh ne Il palazzo degli specchi in cui viene narrato il crollo dell’impero birmano, dalla vista di immagini quasi liriche, ma intrinsecamente minacciose e poi sempre più sconvolgenti di quel che avviene oggi all’interno di allevamenti intensivi di polli, bovini e suini, segregati e ammassati? Tutto ciò evoca altre situazioni, circostanze in cui sono gli esseri umani ad essere semplici numeri, significativi soltanto in quanto massa e usati in un modo piuttosto che in un altro, come mezzo e non come fine.
Ci sono delle costanti che ci ostiniamo a definire impropriamente bestiali e l’inquietudine o lo smarrimento che da esse derivano non basta per superarle, ma l’arte, la poesia, la musica possono essere di nutrimento per le anime scoraggiate.
Ed ecco apparire la domanda: la Storia può essere messa in primo piano rispetto alla sofferenza dei singoli? Enea, come Virgilio e tanti altri dilaniarono la propria vita nel cercare di superare questo conflitto, alternando il desiderio di cambiamento con il dolore da esso generato.
In Virgilio brucia la declamazione con pronuncia classica e in metrica del Secondo Canto dell’Eneide offerta in modo magistrale da Virgilio (Marco Menegoni) ad Augusto e alla sua corte è vera e propria musica, come lo sono le lingue udite in precedenza e gli opportuni sovratitoli permettono di goderne le sonorità cullando il cuore e cogliendo analogie e differenze di idiomi antichi e moderni e, già con questo, rasserenarsi.