Enrico Bernard ha realizzato una brillante e riuscitissima trasposizione da genere a genere che ha preso le mosse da un iniziale testo per il teatro degli anni Novanta, La voragine, per giungere, oggi, con lo stesso titolo, e pubblicata per le edizioni BEAT, Trogen (Svizzera), alla scrittura di un’opera in forma narrativa. Come osservato dal prefatore Ermanno Rea, e da altri commentatori presenti in Appendice, non è certo usuale compiere il percorso inverso rispetto al passaggio da romanzo, o novella (si pensi al caso fra tutti di Pirandello), al testo drammatico.
La prima problematica che si presenta in questo caso, io penso, è far sì che dalla sintesi della stesura drammaturgica si passi in modo opportuno all’analisi che richiede la forma narrativa; nel caso del testo di Bernard la difficoltà aumenta essendoci in ballo, per così dire, solo due personaggi protagonisti (più, se vogliamo, la “Voragine” che è assieme metafora e materialmente enorme buca scavata dall’operaio Ori, su comando e direttive di un anonimo Capo). Bene, a parte qualche lungaggine e qualche ripetitività, direi che la struttura narrativa regge con coerenza e senza stancare il lettore dall’inizio alla fine, ed ha ragione l’autore nell’aver pensato ad una sottotestuale linea “trattatistica”, che traccia un percorso anche filosofico (stanti i suoi studi universitari) di notevole valore riflessivo. Inoltre, Bernard ha saputo evitare alcune insidie (annoiare, scivolare troppo nell’astrazione…) grazie ad una sapiente capacità stilistica di costruire espressivamente una vera e propria drammaturgia del linguaggio: metaplasmi, cioè il lavoro di modifica delle singole unità lessicali rispetto al “vocabolario”; uso perfetto della figura dell’antitesi (vera padrona dell’impianto retorico-argomentativo di tutto l’impianto narrativo, e originata ovviamente dall’imprinting teatrale); similitudini con il “come” azzeccate, colorite, efficaci; ricchezza dei vari strati lessicali molto ben amalgamati: quello colloquiale, quello colto, il popolare, il dialettale, su registri prettamente umoristici e grotteschi; tutta questa ricchezza, questo gran lavoro stilistico-espressivo garantiscono al passaggio da drammaturgia a narrativa un’effervescenza ed una vitalità di gran valore, rendendo vivi i due protagonisti, il Capo e Ori (ben riuscito il passaggio conclusivo metaletterario…)! Naturalmente l’opera esprime anche una visione delle cose della vita, e del mondo, che il lettore è anche libero di non condividere, ferma restando la serietà di pensiero e di riflessione espressa dall’autore. Un pensiero per nulla accomodante con la condizione umana, e fortemente scettico; direi che l’aspetto che colpisce la mente e forse anche il cuore del lettore è la negazione della possibilità che la persona, l’essere umano, possa “riempire” di un qualche significato e valore la vita, interpretandola oltre il puro dato biologico e materiale. Possiamo scavare e scavare e scavare, ma un minimo tesoro che dia un senso non lo troveremo in nessun fondo di nessuna “voragine”.
Se ne può discutere, ma è innegabile che la vicenda e i dialoghi fra i due protagonisti, più gli inevitabili interventi della voce narrante, ci provocano e mettono in subbuglio le nostre certezze; certo, come spesso negli autori della contemporaneità, in specie quelli che potremmo definire “nichilisti”, almeno una certezza c’è: la possibilità di esprimersi attraverso un qualsiasi atto creativo (scrittura, musica, arti figurative, arti performative). Ma c’è chi definisce illusione estetica anche questa soluzione. Resta il silenzio, magari quello dei grandi mistici della tradizione occidentale, che sprofondano nel nulla del proprio io per tentare il mistero divino? O dei mistici di formazione orientale che nel vuoto trovano la liberazione? O dovremmo tornare alla mistica alto medioevale che trova un senso solo nella contemplazione della bellezza della Vita, quella con la V maiuscola? La Zoè dei Greci? Mi complimento, dunque, sinceramente con l’autore, e plaudendo al suo ammirevole sforzo sia formale ed espressivo, che tematico.
Giorgio Taffon