“Amore, morte e ossessione: un’ars poetica e letteraria figlia della patologia”. Saggio di Massimo Triolo su Edgar Allan Poe

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E’ bene cominciare dal contesto materiale (o dovremmo dire immateriale?) delle ambientazioni presenti nell’opera di Poe… V’è in esse una forma di ellissi, contrazione, rarefazione della sfera oggettuale, degli spazi e degli ambienti (perlopiù claustrofobici e tipici di un’esistenza lontana dagli spazi aperti e figlia del rovello della ragione nascosto al mondo intero e alla natura in senso romantico); una preferenza per la dimensione psicologico-analitica della narrazione, la quale detrae il contesto materiale delle collocazioni in cui si dipana, divenendo eminentemente denotativa piuttosto che connotativa. Si riscontra quasi un’analogia con i soggetti del Caravaggio, che escono da una dimensione di preponderante buio od ombra, illuminati da una luce pressoché metafisica che ne esalta la plasticità, ma se in Caravaggio essa dà rilievo al corpo fisico che diventa esso stesso manifestazione plastica del divino, irradiato appunto da una luce oltremondana, in Poe l’elemento fisico-corporale subisce una contrazione e potremmo dire una mortificazione a favore di quello mentale, o viene rimosso attraverso la morte materiale essendo simile a un ingombro; la luce in Poe si fa crepuscolare, minima e contestuale al disvelamento del pensiero o al suo concretarsi nella sfera fisica attraverso l’ossessione della ripugnanza o di un’attrazione che ingenera allarme e pericolo, o di tutte e due assieme, come per l’occhio del Cuore Rivelatore (come non riscontrare l’analogia con la partitura nevrotica di immagini ritraenti l’occhio di proporzioni enormi in contrasto con la cecità, ne “Il gatto a nove code” di Dario Argento, regista geniale e diseguale, vertiginosamente visionario?). Lo stesso destino di morte è assegnato puntualmente da Poe ai suoi personaggi femminili, che manifestamente possono passare da una sfera volitivo-intellettuale potentissima a una dimensione più docile solo attraverso la punizione della morte… Dimensione ipertrofica, soverchiante della sfera mentale, quindi… anche l’amore si esplica per un verso incorporeo, oblativo – si ricordi il rapporto non consumato, bianco, con la moglie Virginia – in cui è preponderante un acuirsi esasperato di raziocinio analitico-induttivo come a compensare lo stato di dissociazione, la quale si concretizza in una spiccata forma immaginativa in cui l’inconscio vorrebbe reclamare una parte preponderante in tutte le manifestazioni, razionali e pulsionali, del soggetto. Ora, i soggetti femminili di Poe sembrano essere tutti, puntualmente, dei perfetti transfert della madre, e come tali immagini di donna fallica e castrante; l’impotenza sessuale di Poe, d’altronde, è da far risalire ad una fissazione, in età bambina, proprio alla madre morente e cadavere, il che implicava una sorta di rivolta del senso morale di questi verso la sessualità in generale, perché questa non poteva essere per lui che di tipo sadico-necrofilo… Ma ecco che in Berenice egli risponde con una castrazione a una castrazione, e la bocca dai denti perfetti e bianchi dell’amata, nel suo inconscio è equiparabile a una vagina, ovvero la vagina, appunto, dentata (ricorre negli impotenti, il paradigma del dente) che è castrante ad un grado fatale, tanto grande quanto efficiente così come sono perfetti e efficienti i denti del personaggio femminile del racconto. Estirpare i denti è un modo per rimuovere il pericolo della castrazione, rendere innocua la vagina. Il legame eros-thanatos è sempre presente nei racconti di Poe. Fissazione alla madre morente, impotenza e tendenze sadico-necrofile, che creano aporia della sfera morale e diventano dei perturbanti in senso proprio. La donna può essere amata solo se trova la sua morte, nell’ambito amoroso questo genera impotenza caratterizzata dal legame ad un precedente stadio di sviluppo o ad un oggetto di quello stadio – ovverosia la madre morente – che persiste in modo immaturo e neurotico, interferendo con altri legami normali. C’è, quindi, l’arresto, durante le fasi dello sviluppo psicosessuale, di una quantità di libido a particolari forme di soddisfacimento, esperiti nel passato, il che cristallizza la pulsione, allontanandola dalla meta (con regressione allo stadio precedente). Il soggetto Poe, quindi, si ritrova in balia di un pensiero fisso o un’abitudine ineliminabile che ne mina, anche profondamente, i rapporti sociali e la soddisfazione personale. A focalizzare l’attenzione è il passato (la madre morente) per il quale il soggetto realizza una regressione psicologica.

Ha scritto Theodor Lipps (1851-1914) nella sua famosa teoria dell’empatia in ambito estetico:

L’oggetto che io devo cogliere, o che si rivolge alla mia attività di comprensione, è in se stesso sempre quello che è. Per me, però, esso non esiste come quello che è, per esempio come questo determinato oggetto intero e in sé conchiuso, se non a patto di essere colto, in ciò che è, da me, cioè se non in quanto è percorso dal mio occhio interiore e abbracciato unitariamente in un tutto conchiuso (…) Empatia significa che, nella misura in cui colgo l’oggetto – quale esiste e solo può esistere per me – esperisco come appartenente ad esso una mia attività o un modo di esplicarsi del mio io.” (Cit. da SERGIO GIVONE, “Storia dell’estetica”, pag.107).

Potremmo aggiungere a chiosa: si ha empatia positiva quando l’oggetto, che si rivolge a me sollecitando risposte, lo fa in armonia col mio spontaneo rivolgersi ad esso. Si ha invece empatia negativa quando l’oggetto mi alletta e nello stesso tempo mi ripugna dando luogo a un contesto conflittuale. E’ questa la forma stessa di ciò che esperisce Poe nella scrittura e nella vita, e di ciò che esperiscono pure i suoi personaggi, una sorta di dichiarazione estetica, che mette per conciliati due termini apparentemente inconciliabili: orrido e sublime; nel Settecento, il filosofo Burke prendeva già in esame il sottile legame tra questi due elementi, ipotizzando che l’orrido fosse strettamente avvinto al sublime, e la poetica di Baudelaire, un secolo dopo, gli avrebbe dato ragione; tra l’altro è Baudelaire a fare da spola per la produzione letteraria di Poe, traducendo in Francia, per la prima volta, i suoi racconti e le sue poesie. Il sublime conosce la sua prima definizione teorica proprio grazie a E. Burke, nel 1756, con un saggio dal titolo: Ricerca filosofica sulla origine delle idee del sublime e del bello. Burke considera il bello e il sublime tra loro inconciliabili. Il sublime non nasce dal piacere della misura e della forma bella (potremmo dire: non dall’Apollineo) né “dalla contemplazione disinteressata dell’oggetto, ma ha la sua radice nei sentimenti di paura e di orrore suscitati dall’infinito, dalla dismisura, da «tutto ciò che è terribile o riguarda cose terribili» (per es. il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il silenzio, ecc.; riprendendo questi esempi Kant dirà: “sono sublimi le alte querce e belle le aiuole; la notte è sublime, il giorno è bello.”

Tutto questo si attaglia perfettamente alla letteratura di Poe e all’iperbole degli oggetti e degli stati d’animo esasperati che egli mette al centro dei suoi racconti e delle sue poesie.

Nel Novecento Freud opera uno studio non sistematico, nella forma di abbozzi di idee attorno alla questione estetica e dell’arte in particolare. Parafrasando Freud: da dove prende l’artista la materia del suo fantasticare? “Neppure lui, interrogato in proposito saprebbe dirlo. E del resto se anche qualcuno potesse rispondere a tali domande e ricostruire con perfezione il processo della creazione artistica, ciò non aiuterebbe a diventare poeta chi non lo è. D’altra parte – nota Freud – è anche vero che in ciascuno di noi è nascosto un poeta, così come è nascosto quel bambino che eravamo anche se non possiamo tornare ad esserlo. È appunto l’attività fondamentale del bambino, il gioco, che permette in via analogica, di penetrare il segreto dell’attività poetica e artistica”. (Cit. pag.109).

Tale realtà consiste della creazione di un mondo che non trova altra cittadinanza se non nella fantasia dell’artista, che opera una sistemazione del proprio mondo a piacere, e nella fruizione che ne fa il pubblico, con meccanismi identificativi e appunto empatici presso ciò che viene liberamente rappresentato. Evidentemente sognare a occhi aperti – attività che Poe tematizza nel famoso verso di “Eleonora”: “Coloro che sognano ad occhi aperti conoscono molte cose che sfuggono a quanti sognano solo dormendo…” – è riconducibile a un impulso che ha uno statuto fondamentale nella psiche. “Poiché però la sua estrinsecazione produrrebbe negli altri freddezza o addirittura ripugnanza, e vergogna nel sognatore stesso, ecco che l’arte si offre di mediare, velando e trasfigurando, ma soprattutto universalizzando, e ci seduce con la promessa di un godimento meramente formale. Essa acquisisce la forma socialmente accettabile della liberazione delle tensioni della nostra psiche. Va sottolineato che l’analogia tra l’attività del bambino e quella del poeta è rimarcata chiamando “giochi” (Spiele) i lavori teatrali, e “giocatore che dà spettacolo” (Shauspieler) l’attore.” (Op. cit., pag.110).

Questa dimensione sperimentante e gratuita, pulsionalmente sorgiva e istintuale, ovvero eminentemente inconscia, affettiva, si ritrova in tutto il lavoro di Poe e nella sua stessa vita, ma con una variante anti-nietzschiana. Là dove il gioco e la sperimentazione libera e incessante, poetante e spontanea dell’esistere, in Nietzsche rappresentata dal terzo stadio del “Bambino”, affermavano una antimorale non reattiva e interiorizzante, non lambiccata ma portata all’azione; in Poe si ha una profonda interiorizzazione malata, un sentimento reattivo e un inventario di aspetti psicopatologici che trovano il culmine in racconti come “Il cuore rivelatore” e “Il gatto nero”.

Ma torniamo al concetto di attrazione/repulsione (perturbante): in un suo famoso racconto (“Il demone della perversità”) Poe descrive con sagacia ed estrema lucidità una sorta di paradosso psicologico: ovvero l’amore per ciò che può segnare la nostra stessa rovina, o l’annullamento dei presupposti necessari a conservare un equilibrio sano nelle relazioni e nell’ottenimento del piacer (il principio del piacere è descritto in psicoanalisi come un principio economico che ha per scopo quello della gratificazione immediata, ovvero, di evitare il dispiacere e di procurare piacere che, equivalgono l’uno, all’aumento della quantità di eccitazione e, l’altro, alla sua riduzione). Anche in Poe, si parla di gratificazione immediata ma per un verso camuffato e insano, specioso, seducente seppure autodistruttivo: si finisce per indugiare su qualcosa di potenzialmente esiziale solo per il gusto dell’azzardo. Gli esempi portati da Poe sono illuminanti: indugiamo sull’orlo di un baratro, sappiamo che a un passo c’è la morte, ma bramiamo per un passo avanti fino al limite estremo che separa piacere da rovina. Oppure: ci troviamo a parlare per descrivere qualcosa al nostro interlocutore e invece di andare dritti al punto, rimandiamo, ci perdiamo in frasi circonlocutorie e maggiore è l’urgenza del dipanare il nostro pensiero tanto più procrastinato è l’atto che potrebbe adempiervi. È una descrizione fortemente realistica di un paradigma psicologico che va contro il principio della conservazione della vita. Si ha, come già detto, conferma dello status psichico fondamentale del perturbante freudiano. Freud ipotizzò, anche, il processo primario come caratteristico di livelli infantili di organizzazione psichica e come il modo predominante di pensare del primo sviluppo. Il processo secondario emergeva dal processo primario, come risultato dell’amara esperienza delle limitazioni della realtà. Il processo secondario, secondo Freud, aveva la funzione di controllare, dirigere, limitare, rinviare e deviare i processi di pensiero secondo le esigenze dell’impatto con la realtà. Questo apparato secondario sembra essere compromesso o assente in Poe, quando egli crea e usa l’arte come scudo rispetto agli aspetti scioccanti della realtà. Proprio come avveniva nel Baudelaire di Walter Benjamin (che è detto letteralmente giocare di scherma con gli shock: shock socialmente e moralmente contestuali ad un’epoca rapida, della simultaneità dell’accadere, irreggimentata da norme e leggi che paiono obsolete) anche in Poe gli elementi negativi, decadenti, di dissipazione di sé e disgregamento delle leggi morali sono il necessario proscenio a un’attività guaritrice rispetto alla tirannia del destino – si ricordino i numerosi lutti subiti da Poe e che l’autore non riesce ad elaborare pienamente, tanto da divenire per questi ossessioni e tarli della mente – e del contesto di vita che appaiono regolati dal principio secondario in termini di accettazione dei doveri come dell’educazione ricevuta, delle istituzioni come dei criteri morali che regolano il vivere civile sacrificandovi l’ottenimento immediato del piacere.

Diversa è la visuale di Jung, rispetto a quella freudiana – espressa anche dall’allieva di Freud Marie Bonaparte nel famoso saggio “Edgar Allan Poe. Studio psicoanalitico”, che prendeva in esame alla luce appunto della psicoanalisi quel brodo di cultura di affezioni e psicopatologie che appariva essere l’opera dei Poe.

Secondo Jung “i grandi miti, gli archetipi, le costellazioni di senso attraverso cui noi interpretiamo la nostra esistenza non sono qualcosa che noi possediamo ma piuttosto qualcosa da cui si è posseduti. Essi irrompono in noi, ci appaiono, come da sempre dati, ci vengono incontro per una necessità intrinseca e nello stesso tempo liberamente. Così appunto nell’arte: la quale è essenzialmente il tramite di tale esperienza, di tale rivelazione. Perciò secondo Jung, l’arte che pesca nella sfera del subcosciente individuale ne trarrà fuori, di necessità, qualcosa di torbido, di morboso, di troppo legato alla nevrosi dell’individuo. Essa consiste non solo nel tradurre nella lingua di oggi la verità immemorabile che è il nostro destino, e quindi nel rendere possibile ‘l’accesso alle fonti più profonde della vita’, ma anche nel trarre conclusioni sul carattere dell’epoca.” (Op cit. pag.111)

In questo Poe risulta essere maestro, collettore di nevrosi e stati alterati della coscienza, profeta della massificazione ne “L’uomo della folla”, antesignano di quel Raskolnikov che compiuto il delitto, come per via del già citato “demone della perversità”, inconsciamente desidera smascherarsi (si vedano le analogie col personaggio principale de “Il cuore rivelatore”), profeta di una dimensione isterica e individuale, risentita e mediata, reattiva e interiorizzante, come detto, figlio del rovello della mente, e così simile al protagonista de “Le memorie del sottosuolo” di Dostoevskij, egli incarna la modernità in senso pieno, le sue aporie morali, le sue ossessioni e gli spettri della mente, in una zona crepuscolare in cui l’incertezza e il pericolo sono predominanti e la morte incombe pesantemente in senso più che Heideggeriano (possibilità dell’impossibilità), ovverosia nella forma fascinatrice di un cupio dissolvi irremovibile e contestuale a un rapporto inscindibile, un legame profondo, fisico potremmo dire, tra Eros e Thanatos.

Massimo Triolo

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