Trieste, Teatro Stabile Sloveno – Slovensko stalno gledališče, Sala Grande. 10 e 11 marzo 2018
Uno spettro benefico si aggira per l’Europa.
In un’epoca in cui un recente e tragico passato sembra sempre più intenzionato a ritornare, l’animo illuminato di Paolo Magelli, regista di grandissima esperienza internazionale, realizza un progetto visionario pur restando ben ancorato alla terra.
Il mondo sospeso fra realtà e sogno de “I giganti della montagna”, il dramma incompiuto di Luigi Pirandello, si adatta alla perfezione all’idea di metterlo in scena unendo le forze di cinque teatri professionali di minoranza, che essendo immersi ognuno in una diversa realtà linguistica maggioritaria, raddoppiano di fatto le radici reciprocamente offerte in un’esperienza di raro approfondimento artistico: se è vero che ogni lingua è la sintesi espressiva del mondo culturale e della storia di un popolo, provare uno spettacolo ripetendo le spiegazioni in quattro lingue senza la mediazione di traduttori permette inevitabilmente di chiarire meglio quel che si sta facendo. L’esperienza che ne deriva ha un grande impatto sugli interpreti che hanno fatto da splendida cassa di risonanza a beneficio del pubblico.
La magia di un testo drammaturgico di grandissima forza evocativa, passata attraverso la sofisticata regia di Paolo Magelli, si dota così di ulteriori suggestioni e sorprese che permettono, dopo poco tempo di fare quasi a meno dei puntuali sopratitoli (in italiano e sloveno) perché non importa più se la lingua usata (albanese, italiano, sloveno, tedesco o ungherese) sia nota o meno, quando si riesce a comprendere lo stesso quel che avviene e suscita curiosità ma non sorpresa ascoltare Daniel Dan Malalan mentre recita la parte del sollecito Spizzi, l’attor giovine alternando con gran naturalezza l’italiano e lo sloveno in ogni singola battuta.
Ecco allora che si accede ad altre possibilità, come quella di godere di suoni in fondo noti senza preoccuparsi del significato letterale, lasciandosi andare per entrare ancor meglio nella villa “La scalogna” assieme ai tredici personaggi e coglierne al meglio l’atmosfera e lo spirito che vi abita.
Tutto ciò riesce a non mettere in ombra la maestria interpretativa degli attori che “vivono pienamente” in una scenografia essenziale e fantastica. Non ci sono gesti o azioni fuori misura e ogni carattere emerge con pertinente espressività: la pacata autorevolezza di Cotrone (Mauro Malinverno) che accoglie gli attori e comprende con animo solidale la passionale intensità di Ilse, la Contessa (Valentina Banci), ma anche la pazienza protettiva del Conte (Mirko Soldano), l’irrequietezza di Diamante (Anikó Kiss), la rapida suscettibilità di Cromo (Giuseppe Nicodemo) o le preoccupazioni di Battaglia (Xhevdet Jashari); assieme a Cotrone, a ospitare gli ultimi resti di una compagnia decimata dal disinteresse di un pubblico, che al teatro preferisce lo stadio, ci sono il tenero nano Quaqueo (Boris Kučov), il munifico Duccio Doccia (Fisnik Zeqiri), la tenera Sgricia (Doroteja Nadrah), il candido Milordino (Richard Hladik), la fragile Mara-Mara (Silvia Török) o l’inquieta Maddalena (Ivna Bruck, che è anche La Donna).
Trieste ha un grandissimo privilegio: è luogo storico di residenza di tanti gruppi etnici abituati a convivere fra “diversi” a partire dalla presenza congiunta di Romani, Germani e Slavi per giungere al 1719 quando Carlo VI d’Asburgo vi istituì il porto franco, attirando così genti da ogni dove: italiani, sloveni, tedeschi, ungheresi, croati, serbi, greci, cui si aggiunsero in seguito rumeni, kosovari, bosniaci, albanesi, tutti ancora residenti assieme ai più recenti cinesi, ucraini, africani e moldavi.
In un luogo simile risulta più semplice cogliere l’essenza di un tale progetto, la cui portata dovrebbe essere da stimolo per molte recite, da rappresentare in Europa non soltanto, come sta avvenendo, nei teatri che l’hanno coprodotto per essere così esempio e, perché no?, antidoto contro tanti pericolosi veleni.
Paola Pini