I “Quattro atti profani” (ma non troppo) di Antonio Tarantino

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Quella che segue  non è una recensione e neppure una analisi critica dei lavori teatrali del pittore e drammaturgo Antonio Tarantino recentemente messo in scena in una bella versione di STABAT MATER  da Giuseppe Marini. Allora cos’è? E’ semplicemente una puntualizzazione e, casomai, un primo indirizzo per un’interpretazione complessiva che ancora manca.

E manca perché nel giustificato entusiasmo che ha circondato la scoperta della drammaturgia tarantiniana si è messo a fuoco più l’interno della sua opera che i cosiddetti collegamenti esterni: ossia ci si è occupati più del piano sincronico e del significato dei singoli testi che di quello diacronico, quasi come se ci si fosse venunti a trovare di fronte ad una drammaturgia assolutamente nuova e fulminante, totalmente inedita. Le cose però non stanno così e, senza minimamente voler scalfire il valore dell’autore  “scoperto” da Franco Quadri, urge a questo punto una interpretazione più ampia.

Non basta infatti convalidare la tesi un po’ fiabesca  che l’opera di Tarantino sia nata spontaneamente e per caso dalla mano da un pittore che all’improvviso ha espresso a penna quello che prima gli veniva a pennellate: è una bella favola quella del grande vecchio che nell’eremo dell’Artista dipinge e compone capolavori in solitudine e pieno isolamento da influssi, corrispondenze, recuperi, agganci e citazioni dal repertorio e dalle esperienze che pure egli cristallizza e formalizza nella sua scrittura.

E’ una leggenda quella della libera arte in libera mente. Una leggenda  che  la critica, per essere seria e cogliere il nocciolo del suo oggetto di studio, non può e non deve bersi così facilmente quasi passando come una “velina” il comunicato di un ufficio stampa che “monta il caso”. La critica piuttosto deve altresì mantenere carateri di “scientificità”, essere sempre sospettosamente “indagatrice”. E visto che per nessun autore vale la regola “dell’Opera senza precedenti e senza eguali” – né per Shakespeare che riprendeva dalla novellistica italiana, né per Brecht che si ispirava al teatro elisabettiano, né per Pirandello che riproponeva la struttura del teatro nel teatro della drammaturgia romantica – mi tocca dare qualche  opportuna “dritta” ad una vulgata che rischia, questa sì, alla lunga per danneggiare lo stesso Tarantino che merita invece un’analisi completa e approfondita, così come lo merita la drammaturgia italiana nel suo complesso in cui Tarantino è completamente – e non può essere altrimenti – immerso.

Sento del resto il bisogno di questa riappropriazione delle opere di Tarantino nelle fila della drammaturgia italiana, dalle origini delle laudi ad oggi,  perché la critica “ufficiale” che guarda sempre con certa circospezione e sospetto gli autori italiani sembra aver voluto usare – e sembra voler continuare a farlo – l’autore di Bolzano come una sorta di esempio e di scheggia impazzita, un fulmine a ciel sereno che l’occhio attento di un critico “scoglionato dalla pochezza circolante” è riuscito ad individuare nel flash di un panorama drammaturgicamente altresì sconsolante.

E’  esempio di questa tendenza la pur bella e dettagliata introduzione di Elena De Angeli alla quadrilogia tarantiniana dei Quattro atti profani  edita da Einaudi.  La De Angeli qualche paragone letterario per la verità lo propone e lo evoca,  ma solo per liquidarlo in poche righe: Testori e Pasolini. Senonché per la De Angeli “forse l’evocazione non è   legittima”    in quanto  “Tarantino si trova dunque a dover dare parole alla Parola, lingue alla Lingua: e compie in questo senso una scelta consapevolmente antiletteraria (e perciò antipasoliniana e antitestoriana), optando per un parlato programmaticamente <basso>, impastato – in interferenza con un italiano sporco, diruto – di dialetti diversi… in funzione di una mimetica antirealistica”  e conclude con fulmineo quanto un po’ scontato (e mollato subiuto) accenno a Gadda. (p. IX)

Non so se Testori possa essere liquidato così in due parole dall’orizzonte di Tarantino, Pasolini certamente no. L’autore dei romanzi  Ragazzi di vitaUna vita violenta (in dialetto appunto basso romanesco), le poesie in friulano, le sceneggiature antirealistiche interpretate da Ninetto Davoli  (ad esempio l’episodio de La ricotta), i film  Accattone  e  Mamma Roma  e il napoletano-romanaccio di Totò e dello stesso Ninetto nel surreale  Uccellacci uccellini  non solo facilmente riconducibili – e casomai la cosa mi deve essere dimostrata con tanto di prove alla mano –  ad un piano “realistico” o peggio tardoveristico (qui porta la definizione della De Angeli). Se poi pensiamo che uno dei capolavori di Pasolini è tratto ed ispirato dalla letteratura evangelica e dall’interpretazione delle laudi, mi riferisco ovviamente al film Il vangelo secondo Matteo,  non è poi difficile intuire come l’opera di Pasolini non si possa superficialmente estromettere parlando del Tarantino che proprio a quel genere di letteratura sacra filtrata dalle profane  laudi e “Misteri buffi” si ispira fin dai titoli stessi dei suoi  Quattro atti.

Il che porterebbe ad inserire nel discorso Dario Fo tanto i collegamenti e riferimenti sono evidenti: Fo e Tarantino sono diversi? Senz’altro, ma questa differenza va spiegata per filo e per segno – se sussiste – oppure negata con altrettanto spirito di iniziativa critica: Tarantino, insomma, è o non è un epigono (nel senso di continuatore) delle riletture dei testi sacri nel linguaggio profano e giullaresco del gramelot?  E il Fo che rilegge Ruzante è fonte di ispirazione ed  anche, per molti versi, modello di Tarantino?

La mia risposta è contenuta nello stesso interrogativo che sa un po’ di sfida alla critica. Voglio insomma dire: dimostratemi il contrario, anche perché Tarantino merita il confronto con questi grandi modelli. Negarglielo vuol dire limitarlo, farlo uscire dall’armadio come un Mastro Geppetto che per caso ha avuto la fortuna, chissà come e chissà perché, di aver dato vita ad un pezzo di legno: un colpo di genio, quando si sa che le bacchette magiche in letteratura non esistono, esistono piuttosto i software – per usare un paragone corrente – di rielaborazione dati: l’autore copia, il genio ruba, sosteneva giustamente Brecht.

Lo stesso Tarantino, timidamente perché gli autori tendono sempre a nascondere la mano, fornisce un indizio che andrebbe  raccolto e catalogato per diventare  prova non a carico, diciamo solo una  chiave di lettura che potrebbe aprire  una porticina interpretativa della sua opera. Egli infatti in una nota introduttiva  cita espressamente Cesare Zavattini. La De Angeli non coglie l’importanza della pista da seguire per fornire, oltre alla struttura interna dei testi, anche una mappa delle radici; mappa che potrebbe e dovrebbe indirizzarci laddove  esse hanno succhiato linfa vitale.

Naturalmente lo Zavattini di Totò il buono (Miracolo a Milano), I poveri sono matti,  e potrei citare l’opera completa dello scrittore e cineasta di Luzzara, è un diretto anticipatore, padre spirituale, ispiratore, insomma chiamiamolo come ci pare di Tarantino. Il quale per altro cita Zavattini perché glielo dice il cuore che deve lasciare un pegno e un tributo: Za è lo scopritore di un “collega” pittore di Tarantino, Antonio Ligabue, al quale ha dedicato un poema drammatico in versi. Ecco dunque che si compie e conclude  il circolo dello scrittore che scopre il pittore e di un altro  pittore che rende omaggio a quello  scrittore assorbendone i contenuti drammatici ed espressivi.

Come si nota da questi primi accenni – che sono solo prolegomeni di una futura critica tarantiniana – già emergono tre grandi autori  con cui Tarantino non dico debba fare i conti, ma nei confronti dei quali un certo qual debito ce l’ha: Pasolini, Fo e Zavattini. Ai quai tuttavia vanno aggiunti almeno altri due nomi: Giuseppe Bertolucci e Dario D’ambrosi.

Dissertando e discutendo l’opera di Tarantino non si può infatti dimenticare il Cioni Mario di Gaspare fu Giulia  dello sceneggiatore e drammaturgo Giuseppe Bertolucci fratello di Bernardo, testo che, lanciato nel 1973 dal giovane Roberto Benigni, è un’opera cult della sperimentazione che precede ed anticipa di vent’anni l’opera di Tarantino. Ci sono differenze tra i due modelli? E se sì, quali? Che aspetta la critica a confrontare testualmente il monologo  di Bertolucci – all’epoca giustamente osannato dalla critica (ma stranamente solo pubblicato prima dalla mia casa editrice e poi da ETS)  – così simile dialetticamente e linguisticamente  a Tarantino, quasi come se l’opera di quest’ultimo fosse una sorta di Cioni Mario  mescolato – sapientemente, va detto in tutto onestà – ai  Misteri Buffi riproposti e rielaborati drammaturgicamente da Dario Fo?

Concludo passando da un Dario all’altro. E parlo di D’Ambrosi e del suo Teatro Patologico che è il capostipite in Italia della drammaturgia  per e con i cosiddetti “diversamente abili” psicologici (i poveri sono matti di Zavattini, insomma). Un genere di teatro che  risale negli ultimi cent’anni alle prime rappresentazioni in manicomio  del Godot beckettiano e a Peter Weiss (La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell’ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade, 1964),  e che ha trovato in Dario D’Ambrosi da almeno trent’anni uno dei principali artefici ed interpreti di fama ormai internazionale. L’accenno, e non posso che limitarmi a questo, si renderebbe necessario – se la critica trovasse tempo e voglia – perché il secondo atto profano di Tarantino, La passione secondo Giovanni del 1997 verte sulla dialettica di  un IO-LUI “sorpreso dalla 180 in un ospedale psichiatrico”   e Giovanni “infermiere rifinito, salito dal grado di portapadelle alla dignità di Opratore Psichiatrico”.  Il testo di Tarantino del 1997 è del resto dedicato “a quelli della 180”  cioé della Legge Basaglia del 1978 superata già nel 1994 dalla “Legge obiettivo” dopo essere stata lungamente dibattuta politicamente, lette-rariamente ed anche drammaturgicamente.

Mi fermo qui.  Aggiungo solo un riferimento al link sul Cioni Mario  di Bertolucci su cui dovrebbe basarsi il confronto testuale con Tarantino.

Enrico Bernard

http://www.academia.edu/15689544/Il_teatro_nel_cinema_di_Benigni
foto Francesca Pagliai

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