Trieste, Teatro Lirico Giuseppe Verdi, 22-30 giugno 2018
L’allestimento per “Traviata” proposto dalla Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste sembra dar voce in modo molto accurato alla musica e alle parole del libretto, ponendosi in ascolto attento alle numerosissime indicazioni in partitura e scrollandosi così di dosso molto della pratica “di tradizione”, spesso non concordante con esse.
A tale contesto musicale ben si accorda la scenografia di Italo Grassi ambientata in una Parigi contemporanea alla creazione dell’opera come probabilmente sarebbe piaciuta a Verdi, ma che era stata impedita dalla censura che aveva imposto di anteporre l’ambientazione di circa cent’anni; si voleva così ridurre la portata dirompente di una denuncia palese all’ipocrisia imperante allora nei salotti in cui i frequentatori si spacciavano per membri dell’alta società pur essendo, per la maggior parte dei casi, nient’altro che parvenus.
È una lettura caratterizzata da movimenti scenici ben dosati, puliti ed essenziali e da un uso misuratissimo di ogni particella sonora, orchestrale o vocale che sia. Prevale l’elemento intimistico della vicenda senza d’altra parte celare, in trasparenza, un’eco quasi espressionistica nelle scene d’assieme (come ad esempio il coro fuori scena nel terzo atto o la festa tragica e in qualche modo grottesca alla fine del secondo) che mettono ancora più in luce il forte e costante scontro tra i contrari, presente fin dal principio.
Grazie all’esplicitazione più o meno evidenziata del perbenismo presente in tutti gli altri personaggi (ottima l’interpretazione del Coro preparato con la precisione abituale da Francesca Tosi), emergono in tutta la grandezza non soltanto la sincerità e la nobiltà d’animo di Violetta, ma anche le numerose opposizioni disseminate in tutta l’opera: tra il mondo maschile e quello femminile; tra l’umano, che condannando rifiuta e il divino, che assolvendo accoglie; tra quel che è interno e ciò che è esterno alla coppia protagonista; tra la grande capacità empatica di lei e la sordità emotiva degli altri, Giorgio Germont (Leon Kim il 20, Filippo Polinelli il 22) in testa che, dilaniato dalla necessità di scegliere quale figlio sia più degno di perseguire la felicità, non riesce a leggere nelle risposte accorate della giovane l’immane portata di ciò che sta chiedendo.
L’accettazione delle esigenze altrui, unita alla lucidissima consapevolezza della propria condizione, appartiene soltanto a Violetta (Claudia Pavone il 20, Gilda Fiume il 22), mentre Alfredo (Francesco Castoro il 20, Luciano Ganci il 22) inevitabile coprotagonista risulta in qualche modo anche comprimario a causa di un amore di certo grande ma non al punto di riconoscere la grandezza del sacrificio della donna a favore del futuro di lui.
Il deus ex machina di questa tragedia è rappresentato dal passato, che tutti vorrebbero superare con un forte atto di rimozione, ma che incombe crudele su di un presente bloccato per negare a chi lo meriterebbe un futuro sereno.
Tutto questo appare evidente fin dalle prime battute dell’Ouverture nella lettura offerta da Pedro Halffter Caro, equilibratissima nel rendere al meglio il tempo interno di ogni frase musicale per realizzare un affresco preciso e ben definito, in cui le voci degli strumenti in orchestra e dei cantanti in scena, in particolare nei pianissimi, sono usate per esprimere la profondità dell’animo dei personaggi e si integrano perfettamente con la regia nobile ed elegante di Giulio Ciabatti.
Il Maestro concertatore e Direttore ha dominato indiscusso le esecuzioni riuscendo, come già in altre occasioni, a mantenersi al contempo ai margini lasciando ad ogni interprete lo spazio dovutogli.
I cast delle recite del 20 (Prova generale) e del 22 giugno (Prima rappresentazione), anche se in modo leggermente diverso, sono stati capaci di rendere con convinzione un’espressività mai troppo violenta in termini di fraseggio, ritmi e colori, dotando ogni attimo di una precisa e logica motivazione e sono stati entrambi molto apprezzati dal pubblico che si è profuso in numerosi e ben meritati applausi a scena aperta, riuscendo nel non facile compito di offrire con coerenza una lettura non usuale di un’opera rappresentata quasi ogni giorno in almeno una sala nel mondo.
Paola Pini