L’inverno del 2012 sarà ricordato a Roma per la straordinaria nevicata che paralizzò la città gettandola nel caos più totale.
Anch’io rimasi bloccato in mezzo al traffico. Via Nazionale si era trasformata in una pista da sci su cui macchine e autobus sembravano slalomisti ubriachi che si mettevano di traverso ostruendo il passsaggio ai rari veicoli con dotazioni invernali, gomme da neve o catene.
Dopo ore di attesa che si muovesse qualcosa, che arrivasse a salvarci uno spazzaneve da chissà dove e chissà come, decisi di parcheggiare in uno spazio libero a bordo strada, forse un posto riservato (ma di un’eventuale multa non era sinceramente il momento di preoccuparsi!) e di proseguire a piedi verso il centro. Fontana di Trevi sotto una copiosa nevicata non è uno spettacolo che si vede tutti i giorni, quindi mi feci coraggio nonostante i mocassini fossero già abbondantemente fradici e le punte dei piedi congelate. Sarei comunque poi ripassato a riprendere la macchina quando la sitazione si fosse sbloccata.
Feci il mio giro turistico scattando qualche foto di un’insolita Roma meno chiassosa, ovattata come una città americana nei film natalizi, come se il solito rumore di fondo fosse attutito da un manto bianco che aumentava a vista d’occhio come panna montata.
Fui improvvisamente colto da un brivido di freddo. Si era fatto rapidamente buio e la neve, fenomeno atmosferico assolutamente insolito a queste latitudini, anziché diminuire andava intensificandosi peggiorando la situazione della viabilità ormai in pieno blocco totale. All’uscita della Galleria che passa sotto il Quirinale sbucai in via del Tritone che attraversai senza neppure aspettare il verde pedonale poiché la neve aveva raggiunto oltre i venti centimetri e la circolazione dei veicoli era veramente impossibile.
Negozi e bar avevano chiuso all’improvviso, non appena si era capito che la nevicata non era un curioso fenomeno atmosferico passeggero, ma che si sarebbe trasformata presto in una mezza catastrofe. Molti si erano riversati sulle strade per far ritorno a casa prima che il traffico si paralizzasse. Ma solo pochi fortunati avevano potuto scappare dall’inferno bianco. I treni erano bloccati, gli autobus privi di catene sembravano cetacei spiaggiati… che fare dunque? Dove andare a passare qualche ora al caldo in attesa che la situazione si sbloccasse? Scorsi delle luci in fondo a via della Mercede, dietro Piazza di Spagna, poteva trattarsi di un bar o di un ristorante rimasto miracolosamente aperto. Un té caldo o una tazza di cioccolato bollente mi avrebbero ritemprato e in uncerto qual senso reso meno uggiosa all’attesa. Affrettai il passo trascinando i piedi nella coltre che ormai mi arrivava quasi sotto al ginocchio.
Grande fu la mia delusione quando il miraggio mi rivelò la sua triste verità: un teatro!
Parliamoci chiaro: a me non piace il teatro, perché mi annoio. Ma in questo caso, data l’emergenza, proprio il tempio della Musa Melpomene mi offriva un riparo alla bufera.
Feci dunque buon viso a cattivo gioco e mi infilai dentro il foyer.
Da questo momento, piccolo inciso per chi legge, preferisco passare al tempo presente in quanto la storia che segue mi ha lasciato dentro, nella psiche, segni indelebili come un film troppo cruento per gli occhi di un bambino. Quindi preferisco attualizzare la narrazione trasportando me stesso dal ricordo di quello che ho passato all’esperienza diretta, così da fare tutti partecipi del brivido che ancora mi sento scorrere lungo la pelle.
* * *
La ragazza al botteghino alza svogliatamente lo sguardo dal cruciverba che non riesce a terminare e mi fissa sbuffando, non capisco se perché rappresento una noiosa distrazione dal suo passatempo o se va in cerca di un suggerimento per le ultime caselle che le restano da riempire.
– Il contrario di Roma ? – m’interroga a bruciapelo senza lasciarmi modo di capire. – Mi manca solo l’ultima parola per chiudere. Il contrario di Roma, quattro lettere. –
– Ah – mi tocco la fronte – intende l’anagramma? –
– Sì, insomma la parola alla rovescia, non mi prenda per stupida. –
– Rifletta. È semplice. –
– Sarò semplice per lei. Ma non per me che sto qui seduta sul trespolo da due ore senza vedere anima viva. Lei è la prima persona che vedo dall’ora di pranzo, guardi fin qui ho fatto tutto da sola! –
– Brava – mi congratulo con un sorriso compiacente che lei però fraintende. – Non sarà forse… amor? –
– Va per le spicce lei! –
– Intendevo l’anagramma di Roma che è appunto amor. –
– Roma… amor, esatto, che sciocchina a non averci pensato prima! Quattro lettere, c’entra benissimo. –
– Certo che c’entra – mormoro sospettando che in fondo abbia ragione a darsi della sciocchina o stupidina, certo non mi pare una cima!
Dopo aver riempito velocemente le caselle bianche chiude la rivista di enigmistica e finalmente si illumina con un bel sorriso carico di soddisfazione. E, come se mi vedesse soltanto ora, mi rivolge un cordiale:
– Buonasera signore!
Beh, avrei potuto semplicemente rispondere con un cerimonioso buonasera a lei! Invece mi vado a ficcare nei guai provocandola:
– Grazie del “signore”!
– Perché, non lo è? – si adombra un pochino.
– Ormai ho i capelli radi… e quei pochi rimasti, beh sono pure bianchi… quindi penso proprio di essere un trimetallico, come si diceva ai miei tempi: denti d’oro, capelli d’argento e… ci siamo capiti, di piombo! – sdrammatizzo riescendo a farla tornare al sorriso.
– Scommetto che le piace sempre scherzare! –
– E scherzando scherzando – insinuo – dire anche qualche verità… Purtroppo l’età avanza. Uno si sente ancora pieno di forze e giovanile, ma cara signorina la prova dello specchio è impietosa. –
– Sciocchezze. Lei è un bell’uomo, non si butti via così facilmente. – Senza aspettare una risposta da parte mia, come a voler cambiare discorso senza lasciarmi il tempo di godermi la melassa che per le mie orecchie racchiudono le sue parole che potrebbero trasportarmi un po’ troppo sulla scia della mia fervida immaginazione erotica, passa ad un tono professionale: – Allora, mi dica: come posso esserle utile? –
La domanda mi coglie di sorpresa. Mi guardo intorno cercando la risposta ad un quesito che comincia ad adombrarsi nella mia mente: è un teatro questo? Oppure sono capitato in una specie di casa chiusa… sì lo so, dicono che dopo la legge Merlin sono state appunto chiuse, insomma proibite. Ma a Roma, non a caso il suo anagramma Amor è un inno alla gioia di vivere, non si può sapere in che portone ci si infila, magari per sbaglio. Cerco di informarmi fingendo di non avere sospetti.
– C’è spettacolo stasera? – mi limito a chiedere.
Lei mi guarda come se fossi un pesce fuor d’acqua, per un istante temo di sentirmi dire di aver sbagliato indirizzo. Invece è proprio lei ad essere stupita dalla mia domanda:
– E perché non dovrebbe esserci, scusi tanto? Se è un teatro con tanto di insegna luminosa e cartellone dovrà esserci pure uno spettacolo, no? –
Tiro un sospiro di sollievo. Niente casa chiusa, niente bordello. La fanciulla non è lì, come usava ai tempi di mio padre o forse addirittura di mio nonno, per indirizzare i clienti alle lavoratrici del sesso a secondo delle preferenze erotiche. Purtroppo per me (mi scuso, ma questo purtroppo mi è uscito veramente d’impulso, come uno slancio irrefrenabile del mio maschlismo che sconfina spesso ahimé nella trivialità) si tratta proprio di un noiosissimo teatro in cui si recitano polpettoni assolutamente da evitare per non cadere morti dal sonno.
– Mi ha sentito? – insiste – Perché secondo lei lo spettacolo non dovrebbe aver luogo? –
– Ma per via della neve! – penso di dire una cosa ovvia.
Lei invece aggrotta le ciglia: – Neve?
– Sì cara, fuori sta nevicando e la città è ormai paralizzata . –
– La neve a Roma! Strano, molto strano – quasi non crede alle mie parole e sbircia attraverso la vetrata dell’ingresso.
– Strano ma vero. Ormai saranno almeno quindici o venti centimetri… –
– Oh mio Dio – esclama d’un colpo – mi ero così distratta da non accorgermi che stava cominciando a fare sul serio! Ho visto i primi fiocchi cadere, ma pensavo che non attecchisse! – – E invece ha attecchito, eccome se ha attecchito! –
– Chissà che casino si sarà scatenato sulle strade. –
– Non se lo immagina neppure. Per questo sono qui. –
– Per vedere il nostro spettacolo? –
– No, ad essere sincero per trovare un riparo e aspettare che passi la bufera di neve e tutto quel che ne consegue, traffico bloccato, automobili in panne, autobus che slittano a destra e manca senza catene, insomma aspettare al calduccio che si risolva la situazione – dico tutti d’un fiato quasi temendo una reazione di stizza da parte sua.
Invece niente, mi concede un altro sorriso per esprimermi comprensione: – Il teatro serve anche a questo, caro signore, a dare ricovero in tempi bui, è come una chiesa dove i mendicanti cercano di ripararsi dal freddo. –
– Quindi farete lo spettacolo? – insisto.
– Senz’altro, ci mancherebbe – mi rassicura. – Non sarà un po’ di neve… Però, ammazza quanta ne sta facendo… comunque, stia pur sicuro, il carrozzone dei comici non si ferma davanti a niente. A meno che … – e qui si blocca insinuandomi un atroce dubbio.
– A meno che cosa? – la interrogo preoccupato.
– A meno che lei sia l’unico spettatore. In questo caso dovremo rimandare la rappresentazione a data da destinarsi. Ma non si preoccupi le daremo il suo rain check. –
– Il mio che cosa? – non capisco, anche perché nelle lingue straniere non sono una cima.
– È un termine tecnico inglese, significa un biglietto per la prossima rappresentazione. In America si usa quando piove ad un concerto all’aperto e bisogna rimandare l’esibizione: rain sta per “pioggia” e check per… biglietto credo. O qualcosa del genere, non sono sicura. –
– Beh, allora mi dica, com’è la situazione in fatto di pubblico? –
– La situazione è che dovrà avere la pazienza di aspettare che si presenti almeno un altro spettatore. –
La questione mi incuriosisce non poco: – Per uno solo niente spettacolo e per due invece sì? Forse – insinuo maldestramente – per avere un minimo pubblico pagante così da rientrare almeno in parte con le spese? –
Sono stato cattivello, lo so. Anche il mio tono di voce ha contriubuito ad evidenziare un insopprimibile sarcasmo. Lei percepisce la mia irritazione e a sua volta s’inalbera: – No, caro signore, non è una questione di cassa, o almeno non solo di cassa. E’ una questione di principio. –
A parte il fatto che questo “signore” ripetuto e accentuato mi comincia a puzzare di sfottò, non mi resta che cercare di chiudere la discussione che minaccia di sfociare in un battibecco.
– Se lo dice lei… – aggiungo per chiudere il discorso. Ma lei invece non intende mollare e continua cercando di accalappiarmi come un Testimone di Geova che trova qualcuno disposto ad interloquire. Mai aprire un dialogo o cercare di convincere un Testimone di Geova! E la stessa regola, cari amici lettori, vale anche per i Teatranti che cercano solo poveri idioti (come me) disposti volenti o nolenti a starli a sentire.
Chiusa parentesi.
– Vede, se fosse cinema non avremmo di questi problemi. Parte la pellicola e chi s’è visto s’è visto. Nel buio della sala cinematografica anche un singolo spettatore solitario, perdoni il pleonasmo – uhm, penso io, il dibattito si fa complicato! – può gustarsi indisturbato il film… Ma il teatro, caro signore – e dagli con questo signore! – è un fatto, anzi mi correggo un atto sociale. E ha bisogno del pubblico che sappia di essere un pubblico, cioè una comunità riunita. E per formare questo pubblico, questa comunità, occorrono almeno due spettatori, uno è lei… poi non so. –
– Bene, allora aspetterò che ne arrivi un altro, oltre me. Però con questa situazion emeteo, col traffico bloccato, sarà molto difficile che ci sia in giro qualche altro pazzo come me che decida di andare a teatro. –
– Perché pazzo? Non potrebbe essere uno qualunque che come lei va in cerca di un riparo? Mai disperare nel nostro mestiere, le sorprese, positive e negative, sono sempre dietro l’angolo! –
– Potrebbe essere – ammetto laconicamente senza aggiungere quel ma… che mi resta sulla punta della lingua con i tre puntini sospensivi che rappresentano il sacrosanto dubbio.
Mi taglio del resto lingua e quell’ultima parolina strafottente perché lei si alza in piedi di scatto sui montantini di base dello sgabello così da sovrastarmi di un trentina di centimetri. Mi squadra dall’alto in basso in maniera così torva che mi sento come Ulisse, alias Nessuno, al cospetto di Polifemo. In questo caso tuttavia sono ben più fortunato dell’eroe omerico, in quanto la grazia da Venere del Botticelli della dolce fanciulla alla cassa è inversamente proporzionale alla rozzezza del gigante mangiacristiani del capolavoro classico. Un colpo di matita nera delinea un striscia sottile sopra le palpebre per far risaltare gli occhi cupi come la pece, ma splendenti nel contrasto con la carnagione diafana. Dai miei vaghi ricordi letterari dei tempi del liceo tiro fuori la descrizione verghiana del personaggio della Lupa. Una folta criniera riccioluta, anch’essa più nera della sabbia vulcanica, le conferisce l’aspetto di un can barbone mefistofelico, ovverosia le sembianze sotto le quali il diavolo apparve al dottor Faust dopo che questi ebbe pronunciato la formula del famoso patto. Tuttavia la bocca carnosa e di fuoco come una rosa rossa appena sbocciata che si schiude in un sorriso smagliante nel suo candore rende il suo aspetto più delicato e sensuale come di creatura or ora uscita da un misterioso eden. Per fortuna non si accorge, o fa finta di non avvedersene, del mio sguardo magneticamente attratto dalla scanalatura dei suoi seni turgidi che mi suggeriscono l’immagine della gioia di un neonato alla prima poppata.
Chiudo anche questa breve parentesi.
– Solo un pazzo – spezzo l’incantesimo – può andare a teatro in una serata da tregenda come questa. –
– Addirittura tregenda! Non le sembra di esagerare? – minimizza. – Ammetto però che non ho ascoltato le notizie. E’ tutto il pomeriggio che sono immersa in indovinelli, cruciverba, rebus, credo di averli risolti praticamente tutti! Guardi ho finito la rivista… – così dicendo mi sventola sotto il naso un fascicoletto bianco e nero costellato di segni e parole di cui a prima vista non comprendo il senso. – Permette una domanda? – aggiunge scendendo dallo sgabello e portandosi alla mia altezza.
– Prego. –
– Lei ha detto che solo un pazzo può andare a teatro con questo tempaccio. –
– Ebbene? – mi spazientisco.
– Ebbene noi, nella fattispecie io e lei, a teatro ci siamo già. E casomai il nostro “pazzo”, il nostro spettatore in arrivo – e sottolinea l’espressione virgolettando con due dita – ci verrebbe e non ci andrebbe, visto che noi ci siamo già, appunto, a teatro. Quindi il moto a luogo “andare a ” dovrebbe dirsi meglio sintatticamente “venire a”, cioè verso di noi. Dico bene? –
– Dice benissimo. Solo che se questo benedetto spettatore non va o non viene a teatro stasera, se ho capito bene, lo spettacolo non potrà aver luogo, nonostante ci sia io in qualità di unico spettatore pagante. Giusto? –
Annuisce. Lancio furtivamente un’altra occhiatina nella generosa scollatura tanto per rinfrescare la memoria, la dolce visione mi toglie per qualche istante il respiro. Con un colpetto di tosse, forse per schiarirsi la voce o forse per togliersi dall’imbarazzo della situazione, mi riporta al “qui e ora” spazio-temporale, mentre fuori nevica, la città è sempre più paralizzata.
– Non si preoccupi, lui fa sempre questo effetto – mi distoglie dai miei pensieri sensuali, anzi quasi erotici ad essere sinceri, tornando dietro la cassa con un paio di passi felpati e un movimento felino delle natiche perfettamente modellate sulla forma della cassa soda e tondeggiante di un mandolino.
Lui chi? mi domando. Il seno? Il suo delizioso lato B?
– Ma a che va a pensare? – mi rimprovera come se mi avesse letto nel pensiero. – Lui, intendo il Teatro!, fa sempre questo effetto di straniamento quando ci si va o ci si viene, insomma quando lo si frequenta per la prima volta. –
– Scusi tanto, signorina. A parte il fatto che io a teatro, non ricordo più quando, ma ci sono già andato o venuto, insomma ci sono già stato almeno un paio di volte. Ma non sono ancora entrato in sala, la rappresentazione non è cominciata, devo ancora fare il biglietto, quindi non può farmi quell’efftetto di… come lo ha chiamato? ah sì, di straniamento. Sto parlando qui con lei, davanti alla cassa o come lo chiamate voi del mestiere: il botteghino. E sono qui più per disperazione che per vedere uno spettacolo, sa? Perché ho la macchina bloccata da qualche parte là fuori, il bar all’angolo è chiuso, i marciapiedi sono impraticabili per la coltre di neve e quindi non posso raggiungere un altro locale, un cinema o un ristorante. Mi sono infilato qui dentro per puro caso, giusto perché siete aperti. E sono disposto a restarci, sempre che lo spettacolo si faccia prima o poi.
– Non si preoccupi – sospira – capirà al momento giusto. –
– Ma che cosa dovrei capire? – mi innervosisco.
– Che come dice Shakespeare ci sono molte più cose in cielo di quelle che lei può immaginare con la sua filosofia. –
– Io non ho nessuna filosofia – comincio a spazientirmi.
– E’ proprio questo il problema. Nessuna filosofia, Nessuna Weltanschauung, che sarebbe una visione del mondo: Niente; nulla; zero assoluto. Ma il teatro gliene darà una. Un’idea, un concetto, un’opinione. –
– Ah – ironizzo – per questo si paga il biglietto? –
– Assolutamente sì – fa lei accavallando le gambe sul trespolo così da mostrarmi uno scorcio da brivido attraverso lo squarcio del gonnellino attillato. Per non parlare degli stivali da cavallerizza che mi fanno balenare la fantasia di una furiosa cavalcata a due. Devo sforzarmi per non cedere alla tentazione della bestia interiore risvegliata da simili campanelli d’allarme che vorrebbe lanciarsi al galoppo, per dirla con una gustosa metafora.
Mi domando solo una cosa: avrà anche lei le sue brave elucubrazioni erotiche, per esempio provocarmi, oppure gestisce con tale ingenuità la carica elettrica, magnetica, del suo corpo da non intuire neppure lontanamente le scosse che provoca con quei gesti apparentemente innocenti, come mettersi la punta della matita tra le labbra, umettandola… basta così, quando è troppo è troppo, mi dirigo verso la bacheca fingendo di essere interessato ad un articolo di giornale, probabilmente una recensione dello spettacolo, appuntata con due spilli dalla testina rossa… proprio come lo smalto delle unghie lunghe e curate della ragazza.
– Che freddo! – esclama come se qualcuno avesse spalancato la porta a vetri per far entrare una ventata direttamente dal Polo.
– Certe volte qui dentro mi sembra di essere un’hawaiana in cima all’Everest… sa com’è, io amo il caldo, il dolce tepore delle lenzuola, del letto… mi capisce.? –
Eccome se la capisco, ma preferisco sorvolare.
– Un’hawaiana in cima all’Everest… che fantasia! –
– A teatro ne abbiamo tanta – si giustifica – ci serve per superare i momenti di crisi, come questo. Anche se a dire il vero la crisi per noi è uno stato normale, la quotidianità, a causa della latitanza del pubblico, la concorrenza dei media… a proposito di pubblico, chissà come sarà lo spettatore che sta per venire, cioé per arrivare. –
– Lei è ottimista. Come fa a sapere che sta – cerco la parola esatta per non ripetere la solfa dell’andare o venire – per sopraggiungere qualcuno? –
Sospira aprendo le braccia e i coni sontuosi del petto si gonfiano maestosamente a simbolo di femminilità assoluta. Sono frastornato, lo ammetto. Sono finito nel tempio di una dea!
– Me lo sento, ecco tutto. Perché, vede, sia pur limitato, sia pur ristretto, sia pur ridotto all’osso o, come nel nostro caso, allo stretto necessario, al minimo sindacale, ci sarà sempre qualcuno che viene o va a teatro. –
– Buon per voi che lo fate, il teatro, allora. –
– Ed anche per lei – insinua un concetto che non afferro subito.
– Per me? – m’incuriosisco.
– Certo, per lei. Perché se noi non riusciamo a raggiungere il numero minimo indispensabile di due spettatori per formare il pubblico, lo spettacolo non si può fare, questo lo sa già. Ma non perché non lo vogliamo noi, bensì perché senza la presenza di due cosiddetti “punti di vista”, ciascuno cosciente della sua diversità dall’altro, viene a mancare l’effetto della “quarta parete” indispensabile per fare teatro. –
– E che cosa è questa “quarta parete”? Mi scusi, ma non sono del mestiere. –
– Oh mio Dio – il suo stupore è sincero – lei non sa cos’è la “quarta parete”! –
– No, dovrei scusarmi? Sono ignorante al proposito. –
– Mai sentito parlare di Stanislawskij? –
– Di Strawinskij sì, di quest’altro mi sembra proprio di no. –
– Il più grande teorico di teatro? –
– Gliel’ho già detto che non sono del settore. –
– Scusi, ma lei che cosa fa nella vita? –
– Io? Mi arrangio come posso, come fanno tutti. –
– Sia più preciso. Che mestiere fa? –
– Sono un rappresentante di commercio. –
– Quindi fa teatro, ecco. –
– Lei mi confonde con qualcun altro, ricordo un lavoro teatrale che parla di uno che fa il mio lavoro, una storia triste. –
– Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. Il personaggio si chiama Willy Loman. –
– Ecco, appunto, non sono io – mi appello al suo buon senso.
– Però il Loman di Miller rappresenta anche lei. Cioé anche lui deve fare una rappresentazione per vendere i prodotti che rappresenta. Dico bene? –
– In un certo senso è così – annuisco.
– E’ costretto ad interpretare il ruolo dell’onesto venditore, insomma, adottare strategie di mercato, adattare le stesse alle diverse situazioni modificando il plot, deve comunicare, convincere, essere credibile, cioé in parte, fare delle tirate… –
– Tirate? –
– E’ un termine tecnico, signfica fare monologhi eccessivamente lunghi. –
– Capita anche questo, certo. –
– E avrà pure un copione da rispettare, sia pur affine alla sua attività. Le faccio un esempio. Quando tratta coi clienti sa già cosa dire in partenza, come procedere nella dimostrazione della validità del prodotto, usando parole che sono risultate convincenti in precedenza… segue dunque uno schema, ossia la drammturia, e una serie di frasi che, a furia di ripeterle, sa ormai a memoria… e queste sarebbero le battute. –
La squadro perplesso: – Questo si può dire più o meno di ogni professione, mia cara. –
– Dice bene, sa? Dalle nostre parti a noi si chiama “il gran teatro del mondo”. –
– Comunque il mio è un teatro che definirei piuttosto “sui generis” – e mi ritrovo anch’io a disegnare virgolette nell’aria.
Mi fissa per qualche istante poi si catapulta di nuovo giù dal trespolo.
– Ma tornando al concetto della “quarta parete”… –
– No, la prego, mi risparmi. –
In verità voglio solo stoppare l’imminente e ammorbante disquisizione teorica, evidentemente però il mio tono di voce non risulta abbastanza perentorio. Lei avanza ancheggiando verso di me, mi punta,… mi dico: attento, ora ti salta addossa e (speriamo!) ti violenta… i miei pensieri si confondono in mare di percezioni illusorie, profumi inesistenti, aromi esotici… Invece mi schiva lasciandomi con gli occhi socchiusi in attesa del bacio della principessa e mi ritrovo a saltellarle dietro come il rospo della fiaba.
– Biricchino – la sua esclamazione mi suona da rimprovero.
Ecco, mi ha scoperto, mi ha letto nel pensiero, ho fatto una figuraccia e balbetto qualcosa per giustificarmi: – Mi è entrato qualcosa nell’occhio… non vorrei che avesse pensato male, non mi permetterei mai! –
– Ma no, cosa pensa, perché dovrei sospettare di lei, non sono così maliziosa. Il biricchino è il titolo dello nostro spettacolo. –
– Ne sono felice. Sono entrato in fretta e furia senza leggere il titolo del cartellone. –
– Resta il fatto però – il suo tono diventa stranamente inquisitorio – che lei abbia scambiato il titolo della commedia per un fatto personale – ciò dicendo allarga con un braccio la tenda dell’ingresso in sala per farmi accomodare. – E sa perché è potuto accadere il malinteso? Perché tra noi manca la “quarta parete” che cercavo di spiegarle. –
– Manca perché è caduta? –
– Manca perché non c’è mai stata… prego si accomodi, il suo posto è il numero sette della settima fila. L’accompagno. –
– Non ce ne è bisogno. Settima fila settimo posto. E gli altri? –
– Come gli altri? Quali altri? –
– Se mi assegna un posto e devo mettermi a sedere proprio lì, beh vuol dire che gli altri posti saranno prenotati e che devono venire altri spettatori. Mi sembra logico. –
– E le sembra logico che a Roma faccia un metro di neve? –
– Siamo già a un metro? –
– Ne cade sempre di più. –
– Quindi non verrà più nessuno? –
– Probabilmente no. –
– Quindi che facciamo? Niente spettacolo? –
– Scusi che cosa le ho detto poco fa? –
– Che per fare lo spettacolo, cioé per ottenere l’effetto della “quarta parete” servono almeno due spettatori in sala. –
– Bravo. –
– Ma io sono uno solo – obietto.
– Ed io secondo lei che ci sto a fare? –
– La cassiera al botteghino? –
– Acqua – fa lei col tono di chi vuole giocare a indovina-indovinello.
– La mascherina che porta la gente ai posti? –
– Acqua – ripete.
– La dama di compagnia? – provoco.
– Fuochino – ammette lei sedendosi accanto a me.
Il profumo di femmina, un misto di sudore dolciastro e qualche essenza di marca, mi fa salire di nuovo il sangue alla testa e mi accendo anch’io nel ripetere stupidamente quel termine come una formula magica: – Già, fuochino, ma fuochino cosa? –
– Non sarò la sua dama di compagnia, ma posso sempre aiutarla a stabilire un giusto rapporto tra lei, la realtà rappresentata e la rappresentazione della realtà. –
– Cos’è, uno scherzo? Mi vuole prendere in giro? –
– Al contrario – osserva con convinzione – voglio prenderla sul serio, per questo mi siedo accanto a lei venendo a formare la triangolazione necessaria per suscitare l’effetto teatro della… me lo dica lei. –
– …. della “quarta parete” – ripeto la lezioncina di pocanzi.
– Bravo! –
Prima ancora che possa ringraziare o contraccambiare l’apprezzamento che si spengono le luci e si sente volare nell’aria un sssst! non saprei pronunciato da chi, se non da uno spettatore fantasma. Mistero! Arcana presenza! O piuttosto da qualcuno che si sta preparando ad entrare in scena. Infatti il sipario di stoffa rossa lentamente si apre e svela una scena estremamente povera, null’altro che una sedia, anzi un trespolo… ma è lo stesso trespolo, insomma lo sgabello su cui era seduta lei, la ragazza che ora mi siede accanto e che spalanca gli occhi e apre la bocca incantata, chissà perché, come se stesse assistendo ad una qualche mirabilia della scenotecnica.
A questo punto però mi arriva la sorpresa come un pugno nello stomaco. Ecco, entra in scena un signore, ma non un signore qualsiasi, accidenti, lo riconosco: quel signore dai modi impacciati e titubanti sono io e… altra soprpresa dall’uovo di Pasqua di questo teatro, dall’altra parte delle quinte entra in scena una donna giovane, la stessa ragazza che mi sta seduta accanto: la cassiera! Siamo, anzi sono quei due sul palco simili a me e alla ragazza che mi siede accanto, entrambi vestiti nello stesso modo, parlottano del più e del meno. Sussurrano qualcosa, qualche parola mi giunge all’orecchio come “quarta parete”, spettatore, spettacolo, teatro, neve, tanta neve. Poi la ragazza fa accomodare il signore, che sarei io, in un’altra sala teatrale che si apre come per un magico gioco di scatole cinesi in un altro teatro uguale a quello in cui mi trovo. Si siedono esattamente alla settima fila, posti numero sette e otto. Mentre sul palcoscenico dell’altro teatro entra in scena un terzo signore uguale al secondo che è uguale al primo, che poi sarei io. Quindi una ragazza uguale, neanche a dirlo, alle precedenti. Compiono le stesse azioni, gli stessi gesti, entrano a loro volta in un altro teatro.
E diventano, cioè diventiamo tutti insieme infiniti spettatori di infiniti teatri come tanti fiocchi di neve.
Ecco perché ho deciso di non mettere mai più piede in un teatro!