“ROMA”, LA SUMMA DI ALFONSO CUARÓN, UOMO E ARTISTA

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Il film comincia e vediamo un’inquadratura fissa, lunga e senza stacchi, su delle mattonelle di forma quadrata di un pavimento; ad un certo un flusso d’acqua le bagna, la superficie allora si fa speculare, e su questo specchio scorgiamo il riflesso di un aereo che vola in lontananza. La macchina da presa compie una panoramica a salire, svela un cortiletto, stretto e lungo, e una domestica che lo sta pulendo. Roma è presto detto; Alfonso Cuarón, l’uomo e l’artista dietro la macchina da presa, manifestato. Innanzitutto l’acqua, per il regista messicano l’arché di tutte le cose, e di tutto il suo cinema, simbolo di rinascita, di catarsi, redenzione e salvezza. Poi il piano sequenza, l’inquadratura lunga e senza stacchi, l’elemento linguistico per eccellenza della poetica di Cuarón, il marchio stilistico, il tatuaggio del suo “corpo-cinema”. Una casa borghese e una domestica india, uno spazio da ripulire. Partenze e fughe in posti lontani. Roma annuncia ciò che è fin dall’inizio e nelle sue due ore di durata è proprio tutto ciò che annuncia in quei primi minuti. Alfonso Cuarón, il “geografo” (chiamato così per via del suo peregrinare per la realizzazione delle sue opere), torna a girare nel suo Messico dopo più di 17 anni, dai tempi di Y tu mamá también. È il Messico degli anni ’70, popolato da contraddizioni, dove lo slancio della classe borghese fa i conti con una ricchezza che non riesce a gestire, il benessere oltremodo ostentato con la schiavitù silenziosa dei nativi: su quel cortile la imponente Ford Galaxy del padrone passa a malapena e per farla entrare occorrono tante manovre, che tuttavia non le impediscono di spiaccicare le ruote sopra le “cacate” del cane domestico.

Roma richiama la sfera intima di Cuarón, i movimenti di macchina e il ricercato lavoro con i suoni (che spesso in sala sentiamo provenire anche alle nostre spalle) ci stringono dolcemente a lui, come in un abbraccio che tutto comprende ed avvolge, e lui docilmente si scopre, rivelandoci l’uomo che ha dato vita all’artista, e l’artista che ha dato alla luce l’uomo di oggi. L’opera vive di echi che vengono da lontano, dal suo passato, dalla sua infanzia: la sua terra natia, la riconoscenza dovuta al prezioso lavoro delle domestiche, le difficili condizioni sociali di quell’epoca, le sue passioni fanciullesche (giocare alla guerra, o il sogno di diventare un astronauta); e ripercorre la sua filmografia, il suo percorso artistico, irto di ostacoli, ma anche di autentiche soddisfazioni: tappe cruciali e fondamentali. Roma è una felice sintesi della struttura polare su cui si base il mio libro, una monografia dedicata al regista messicano: di fatto il volume si suddivide in capitoli che alternano al discorso filmico e artistico, il percorso umano. Le tappe dell’esistenza dell’essere umano (nascita, infanzia, adolescenza, età adulta), sono lette anche in chiave artistica, di un processo e una maturazione come autore: questa dialettica e questo parallelismo con Alfonso Cuarón funzionano in modo perfetto.

Roma è il prezioso contenitore di tutto un immaginario tematico e stilistico: i piani sequenza che ne cementificano le basi di verità e realtà; le profondità di campo, con inquadrature che mostrano più di una scena contemporaneamente, lasciando lo spettatore libero di muoversi, di scegliere cosa vedere, e cosa ascoltare, su cosa porre il proprio interesse, attento ma allo stesso tempo distaccato: esemplare in tal senso la scena al cinema tra Cleo e il fidanzato. Non solo per questo. Dentro Roma troviamo un riferimento palese a Gravity, troviamo la guerriglia, la nascita e il parto de I figli degli uomini; troviamo le onde del mare e la donna che vi si abbandona come Luisa di Y tu mamá también, ma troviamo anche e soprattutto gli abbracci di Y tu mamá también e Harry Potter e il prigioniero di Azkaban. Troviamo la morte, tema tanto caro al regista. È una summa del suo cinema. È un ritorno al cinema d’autore, più sobrio ed asciutto, privo dell’abito da blockbuster che Cuarón aveva scelto di fargli indossare nelle ultime uscite, feste immerse nei fumi hollywoodiani; senza troppi sensazionalismi, schietto, un cinema che nasce dalla realtà, che pulsa nella quotidianità e respira di spontaneità, articolato in gesti semplicissimi ed abitato da volti sconosciuti, senza i Clooney o le Bullock di turno. Ma abitato dai medesimi personaggi, donne soprattutto, pervase da una profondissima umanità, capaci di mettere in atto rivoluzioni lontane e silenziose, intime e potenti, che aprono al cambiamento e al futuro: Clarisa, Luisa, Kee, Ryan ed ora Cleo, una domestica che si barcamena in ogni tipo di servizio, dal ripulire la cacca del cane a dare il bacio della buonanotte ai figli dei padroni, amata ed abbandonata, sofferente e felice, di una dignità regale che trasforma tutto in bellezza. Il cinema di Alfonso Cuarón è donna. Roma è una costruzione imponente, un discorso lucido ed intaccabile, privo di soluzioni ad effetto nella trama, che forse tiene a distanza l’emozione e il coinvolgimento, ma è un’opera centrata e funzionale: uomo e artista convivono simbioticamente, si alimentano dello stesso ossigeno, le necessità del primo sono le medesime del secondo. Le passioni, le urgenze, le tensioni, le pulsioni, anche.

Voto 8 su 10

Simone Santi Amantini

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