Al Teatro Filodrammatici di Milano
Paolo Nani, con le sue maschere circensi, chapliniane, keatoniane, qualche suono messo ad hoc, parole ridotte al minimo indispensabile, una mimica straordinaria, narratore di storie tanto assurde quanto profonde, ci regala momenti di gioia pura, di divertimento privo di intellettualismi e di provocazioni fini a se stessi, senza mendicare applausi, che invece sorgono spontanei come le risate e la leggerezza che si impadronisce dei nostri pensieri e dei nostri corpi, come se fossimo seduti su dei tappeti volanti.
Nani è un artista generoso come sono i veri artisti. Quando sale sul palco il suo scopo è far ridere il pubblico, compito più difficile che sbattergli in faccia melodrammi sociali e tragedie il più delle volte offuscate di ipocrisia.
Mi sono trovata in sala con persone di tutte le età ma soprattutto con tantissimi bambini che partecipavano ridendo a crepapelle e a cui va il mio grazie per avermi fatto sentire ancora una di loro.
Nel primo spettacolo “La lettera”, liberamente ispirato a Esercizi di stile, libro dello scrittore francese Raymond Queneau, e che ha al suo attivo migliaia di repliche in tutto il mondo, Nani è un uomo che entra in scena, si siede a un tavolo, beve un sorso di vino, contempla la foto di una donna e scrive una lettera, ma poi, mentre sta per uscire per imbucarla, gli viene il dubbio che nella penna non ci sia inchiostro. Controlla ed effettivamente si rende conto di non avere scritto nulla. La stessa storia si ripete ma con diverse varianti ogni volta: horror, western, senza mani, all’indietro, cinema muto, circo, volgare, con sorprese, e molte altre, una più spassosa dell’altra.
Con questo sistema di varianti comiche, Nani ci vuol dire che la realtà è fatta di mille sfaccettature, che un gesto può assumere altri significati, che le possibilità del nostro corpo e della nostra mente sono infinite, o quasi. E’ interessante vedere situazioni ripetitive che si trasformano in qualcos’altro cui non avevamo pensato. Ma Nani sì, lui ci ha pensato perché è un artista e arriva dove altri non arrivano, tocca dove altri non toccano, vede dove altri non vedono, ha il coraggio di scavare nelle profondità dell’essere umano e di trovarci pietre preziose.
In “Jekyll on ice!” Nani ci porta al circo, diventa un clown che coinvolge gli spettatori, grandi e piccoli, nei suoi pasticci, anzi nei suoi gelati, facendo volare palloni, suonando musica rock, ballando portando in giro il suo corpo informe. Si ride senza sosta, e ci si dimentica, per un po’, che fuori ci aspetta una storia diversa.
Siamo così sicuri che le parole siano una forma di comunicazione indispensabile? Che senza di esse non possiamo davvero capirci? E se invece meno parole fossero la chiave per comprenderci meglio, senza offenderci, senza misunderstanding, senza usare toni aggressivi, aspri, irriverenti? Proprio come fa Nani il cui teatro è davvero politico: nel senso che si rivolge alla πόλις, alla città, alla sua parte più semplice, più genuina, a quella che sa ancora ridere e stupirsi, e che non vorrebbe mai scendere dal tappeto volante.
Daria D. Morelli