Dal 15 dicembre al 20 dicembre 2018 al Teatro San Carlo di Napoli. Vista la prima del 15 dicembre
Più che un’opera abbiamo assistito a una vera e propria poesia in movimento ieri al San Carlo di Napoli. La musica allo stesso tempo lirica e poliritmica di Leoš Janáček – che dà luogo a una composizione che scompone letteralmente la tradizione, passando dalle reminiscenze di Smetana a emozionanti effluvi sonori di stampo contemporaneo– si sposa con il libretto degno del più alto retaggio teatrale, scritto dallo stesso musicista in collaborazione con Vincenc Cervinka. Effettivamente in questo melodramma c’è molto di teatro, poco di cantato, tanto di “recitar cantando”, con gli interpreti che accanto alle capacità vocali manifestano un’ottima prova di arte drammatica, muovendosi continuamente sul palco – delle volte come danzando – assecondando il ritmo delle note.
Di grande efficacia la scena di Wolfgang Gussmann (anche curatore dei costumi), con la vicenda ambientata all’inizio del Novecento, coi personaggi inseriti all’interno di una grande struttura lignea e geometrica, che ci accompagna per tutto il dramma; è da evidenziare a questo proposito il disegno luci di Hans Toelstede, fondamentale per lo spettacolo, dove si ravvisa spesso e volentieri – all’inizio, come nel finale – il gioco in controluce dei protagonisti che divengono eleganti silhouette.
Il soggetto, non sarà inutile ricordarlo, visto che non si tratta di un’opera tra le più conosciute (almeno nel nostro Paese), prende in esame la vicenda della protagonista Katerina Kabanová, ingabbiata in una situazione opprimente, circondata dalla malvagia suocera Marfa Kabanová, il vero tassello forte della famiglia, in grado di comandare letteralmente le scelte di suo figlio, marito di Katerina, Tichon Ivanyč Kabanov, costretto a partire per un lungo viaggio dettato proprio dalla madre. Katerina, che sembrerebbe devota allo sposo, si ritrova così sola e accade il tradimento con Boris Grigorjevič, che ella confesserà in un secondo momento pubblicamente. Invasa dai rimorsi e dai tormenti, la donna infine si suiciderà gettandosi nel Volga.
In questa opera non è tanto preminente il tema del triangolo amoroso, quanto invece la relazione che s’instaura tra marito, moglie e suocera, con quest’ultima che si intromette direttamente in tutte le scelte, provocando un grave disagio che condurrà alla tragedia. Emerge con forza la figura del gabbiano, questo sia da libretto che visivamente, con Katerina che affigge sulla quinta fogli che illustrano il volatile, simbolo di quella libertà da lei agognata e mai avuta.
I cantanti danno luogo a un’ottima prova corale, per un’opera che funziona per la sua fluidità d’insieme, rinunciando al canone ottocentesco di recitativo > aria. In questo caso è il recitativo che primeggia ed è per questo che come già accennato il tessuto di questo melodramma è soprattutto teatrale. Tra le voci femminili, certamente di pregio quella della Katerina Pavla Vykopalová, soprano drammatico che non perde mai intensità per l’intera durata della rappresentazione (un’ora e quaranta senza intervallo), dando prova anche di un’ottima attitudine d’attrice, gestuale e fisica, spostandosi sul palcoscenico in modo brillante. Grande interpretazione anche quella della “Kabanicha” Gabriela Beňačková, una suocera cattiva veramente attendibile, tanto ci spaventa in questo ruolo in cui si immedesima in modo sorprendente, risultando pienamente credibile. Tra le voci femminili da evidenziare anche quella della Varvara (la figlia adottiva dei Kabalov) Lena Belkina, che con il suo timbro da mezzosoprano, pulito e limpido, scuro quanto serve, è in grado invero di toccarci le corde del cuore in taluni sprazzi dell’opera, specialmente nei duetti con Katerina.
Tra le voci maschili, di rilievo quella di Ludovit Ludha, nei panni del marito, il quale con il suo canto tenorile partecipa in modo eccellente alla drammaticità dell’azione, portandoci un Tichon Ivanyč Kabanov realistico e credibile, così come lo è il Boris Grigorjevič Misha Didyk, l’amante di Katerina, che dalla passione amorosa sarà poi costretto a ritirarsi a malincuore, scomparendo in conclusione in dissolvenza.
La scena forse che più ci ha toccato è stata quella del primo incontro tra Katerina e Boris, che s’intreccia insieme a quello di Varvara con Vana Kudrjás (il tenore Paolo Antognetti, anche lui artefice di una prova eccellente nell’interpretare il personaggio più estroverso e brillante del dramma). Si tratta del momento più poetico della “Káťa Kabanová”, unico frangente di piena libertà per la protagonista, dove ella può vivere quell’amore clandestino che infine sconterà, per sua scelta, con la tragedia.
La regia di Willy Decker – ripresa da Rebekka Stanzel – è funzionale e organica. L’opera scorre fluida come un fiume, proprio come quel Volga alla fine inghiottitore della protagonista, che nella suggestiva scena finale si getta letteralmente dalla parte anteriore del palco, per poi essere recuperata dagli astanti ormai senza vita.
La musica di Janáček è veramente complessa, intrisa di riferimenti alla tradizione, ma anche squisitamente contemporanea, senza mai perdere di vista quel lirismo e quella emotività indispensabili a un’opera che possa toccarci nell’intimo (passa da melodie distese alle nenie, facendoci assaporare anche un cadenza da ninnananna). In questo senso il direttore Juraj Valčuha, alla guida dell’Orchestra del San Carlo, dà luogo a una magnifica prova, rispettando tutte quelle sfumature timbriche e ritmiche che la partitura comporta.
In generale, un’ottima interpretazione d’insieme, per un melodramma molto difficile, sia dal punto di vista vocale, teatrale e musicale, ed è per questo che la sua riuscita avvalora ancora di più la prova di tutti gli elementi dello spettacolo che gli hanno dato luce.
Stefano Duranti Poccetti