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Gianni Brera morì, all’improvviso

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Uno schianto nella notte, in autostrada. E un commiato a suo modo geniale: il classico incidente automobilistico da relegare alle “brevi di cronaca” del Corriere Prealpino.
Niente a che vedere con la cirrosi epatica o il tumore al polmone ai quali lui stesso si era quasi rassegnato: dopo una vita che proprio nel fumo e nell’alcool aveva trovato la sua inesauribile fonte di ispirazione.

Lo disse il telegiornale del mattino. E la sensazione (ricordo benissimo) fu quella di una perdita irreparabile… La stessa che provai, ragazzo, con la morte di Eduardo e poi, più grande, con quella di Montanelli.
Nel caso di Brera, che aveva poco più di settant’anni, il rammarico per un rapporto che si interrompeva sul più bello: “el Gioann” era uno di quelli per i quali valeva la pena comprare un giornale, o un libro… Crescere con lui era stato esaltante, oltre che istruttivo. Pensare che da lì in poi ci sarebbe stato spazio solo per i riassunti delle antologie, ma niente più di inedito, di croccante, fu uno choc vero e proprio.

Non si sa come nascono i grandi amori.
Quello con Brera fu una roba a prima vista, il classico colpo di fulmine; eravamo una generazione poco avvezza ai libri, e ogni estate dovevamo fare i conti con la classica letteratura per bambini che ci suggerivano a scuola: Giulio Verne e i Ragazzi della via Paal, e poi, da adolescenti, cose più serie tipo “La guerra dei bottoni” o “L’Agnese va a morire”.
La “Storia Critica del calcio Italiano” me la regalò un vecchio zio: ottocento pagine di un’edizione Rizzoli (o Garzanti? Boh) che lì per lì mi atterrirono, nonostante una mente già ampiamente rodata dalla lettura quasi maniacale del vecchio Guerin Sportivo.
Ma quel libro fu una botta in testa: leggere Brera era un’esperienza sensitiva… Era Salgari, Manzoni, Conrad e Mark Twain centrifugati insieme. E pagine sublimi di storia, di filosofia o di geografia parlando della difesa dell’Atalanta o della prestazione di Gianni Rivera. Del ricordo di Coppi e delle beccacce della bassa padana. Di certi robusti vini piemontesi e dei “pistard” Maspes e Gaiardoni.
Quel libro che assomigliava a un mattone fu, in realtà, la chiave per entrare ufficialmente in un mondo magico… Lo lessi in pochi giorni, godendo di ogni pagina che scorreva e rammaricandomi al tempo stesso, perché avrei voluto non finisse mai… Infatti, quando arrivò l’ultima pagina ero pronto per ricominciarlo daccapo.
E a quattordici anni, ero già al sesto giro.

Brera l’ho visto un’unica volta, in vita mia. 1985, credo.
Era ospite dell’Università di Siena, che aveva organizzato una lectio magistralis sul tema “etnos composito degli Italiani”… Niente di calcistico, ma comunque roba che “El Gioann” maneggiava da par suo.
Lavoravo già in fornace, e mi sciroppai il turno delle 5 del mattino pur di guadagnare la prima fila, a pochi passi da lui: ero lì, a non più di due metri, e guardavo le nuvole di fumo che si alzavano dal suo sigaro toscano e mi fissavo su quei due occhietti che sembravano fessure (come quelli di Boskov, per intendersi).
Ma ebbi netta la sensazione di un uomo che abitava su Plutone.
Lontano, quasi inarrivabile.
E fu una sensazione piacevolissima, che non ho più provato in vita mia… Nemmeno quando mi sono trovato davanti a Bruce Springsteen, Federico Buffa o Trevor Francis, che pure mi azzerarono la salivazione.

Gianni Brera è stato, più di tutti, il mio Novecento.
Una lezione dietro l’altra, delle quali gliene sarò grato eternamente.

Gli sia lieve la terra di San Zenone Po.
Avrebbe detto così anche lui.

Riccardo Lorenzetti

Foto Gazzetta dello Sport

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