Ricordando “In ritardo sulla scena” e “Occhio e assenza” del poeta Massimo Triolo, attraverso due recensioni di Maria De Gaetano e di Stefano Duranti Poccetti

Data:

Malinconiche presenze sulla scena dell’esistere. La nostalgia e l’incompiutezza evocano il tormentato Io lirico del poeta; da Edizioni Akkuaria

Di Maria De Gaetano

È evocazione allo stato più puro, onda che si propaga dall’inquietudine oltre il dato, oltre l’evento, al quale guarda anzi con lontananza, da un binario parallelo che correrà sempre a fianco ad esso: «Quel che ho / nel sogno l’ho posseduto; / e quel che abitai/ mai lo colsi alla presenza mia».

Poesia densa e corposa quella di Massimo Triolo, aretino, che si è cimentato nella raccolta In ritardo sulla scena (Edizioni Akkuaria, pp. 102, € 12,00), facendo della tematica ipertrofica e dell’evocazione suggestiva il suo stendardo: «Tu che m’insegni la strada, / ricorda l’algebra dei nostri occhi fondi, / che ci descrisse e mai nessuno seppe, / l’aroma blasé che ci portiamo appresso nel nostro “lungovita” amaro».

A ciò, che costituisce il cuore pulsante della struttura, della sua letteratura, fa da cornice un impianto linguistico particolarmente curato, che si nutre di una tessitura variegata di termini aulici e toni esclamativi, miranti a creare la particolare atmosfera ovattata entro cui è racchiuso il mondo sognato/ sperato/ rimpianto dello scrittore.

La sua poesia non funge così da interpretazione della realtà, piuttosto essa diviene il tramite, lo scalino per mezzo del quale raggiungere il suo doppio, ovvero la realtà emotiva e spirituale del poeta, che scopriamo possedere un caleidoscopio di emozioni tra le più varie. Arde incessantemente il fuoco della passione in confronto al quale «magro ha da essere ogni compenso, / che viene gettato a un’anima inquieta».

Le note più accorate di ricerca intimistica si notano in Come sono ai tuoi occhi, una lirica tutta cuore, in cui il poeta abbandona ogni tentativo di profetica vanità per esplorare i percorsi degli interrogativi più intimi e sinceri sul proprio io, visto attraverso la lente d’ingrandimento dell’altro; le impressioni che scaturisce nell’immaginario del suo presunto interlocutore diventano anzi il fulcro vitale della ricerca dell’anima tormentata dell’io lirico: «Dura la sera oltre ogni dire, / senza i tuoi occhi che mi scavano dentro, / senza i miei occhi sui tuoi occhi, / senza sapere, / come mi vedono i tuoi occhi».

Il poeta ha «rinunciato a praticare le veglie/ rimboccando le coperte a sogni acerbi, / quegli stessi che mai poterono compiersi» nel corso della sua vita, tuttavia non il rimpianto deve bastare a sbloccare la tensione verso la vita, se il poeta anela a salvare sempre «un’oncia di sorriso/ al centro della ragione del cammino». Questa è l’anima di Tu che m’insegni la strada, una delle pietre preziose della raccolta in cui l’invocazione commossa a una presunta guida spirituale si unisce al dolce ricordo di progetti mai avvenuti, ma vissuti nell’intensità del sogno.

Parola d’ordine di questa raccolta in cui tutto sembra svolgersi all’interno di una cornice onirica è indeterminatezza. La leggerezza e la contemporanea potenza di una poesia in ritardo sulla scena della sfera emozionale, quindi consapevolmente malinconica e nostalgica, che non rinuncia anche in punta di piedi a regalare scorci di grande espressività: «Frugato abbiamo le vesti ad angeli randagi, / adagiando sospiri sulle loro labbra di miele / noi disperati cartografi di stelle / per non dover che onorare l’ombra/ del nostro segreto cuore di gemma, / loro assenti nei nostri dedali di specchi».

È pensiero combattivo, dove il “ritardo” sulla scena emozionale viene quasi vendicato col rifugio nell’allegoria più spinta, che sfocia nell’ermetismo. Ed ecco che, per sempre, la non riuscita dell’azione viene sublimata nell’eternità di un pensiero codificato, la cui decifrazione non risulta accessibile se non ripercorrendo la stessa straordinaria via dell’irraggiungibile, dell’universalità e ahimè, giungendo allo stesso traguardo del non senso, dell’ambiguità, del segreto, del melanconico, che costituisce il cuore dell’opera.

Ma perché concentrare la seconda metà del testo tutta su un singolare medley dei Pink Floyd, in nome della storica band? L’omaggio in versi è totalmente interiorizzato e rivisitato sulla propria esperienza di vita, in una prospettiva che dilata il tempo del brano, arricchendolo di una dimensione familiare, scena per scena nelle dodici parti di cui si compone. L’originale, che è una denuncia contro le delusioni del mondo, le istituzioni, i tradimenti che costringono gli uomini a costruirsi un muro intorno, è filtrato dalla lente di ingrandimento della vita ed esperienza di Triolo… : «Ma noi non vogliamo una coscienza felice, / bensì una volontà e un Eros, liberati e concordi, / che un Tempio Sacro siano, di colori e simboli, / suoni e odori, ed echi familiari […]».

Ed è entrando nel cuore di questo coro rivoluzionario che ritroviamo la consapevolezza di un sogno che si infrange e di uno sguardo all’indietro che mostra un bambino cresciuto, in mezzo a «una placida risacca di confuse sensazioni». È voce ormai fuori dal guscio delle idee patrie con una propria identità che alza il volume al grido di ribellione di una vita “mesmerizzata”, che vuole puntare al risveglio dalle generazioni precedenti pervase dal vizio necessario di scordare dopo aver imparato, vittime di un qualunquismo che si riversa sulle generazioni successive, per poi consolarsi nell’assoluzione.

Maria De Gaetano

Dalla rivista exsursus (www.excursus.org, anno IV, n. 38, settembre 2012)

“Occhio e assenza” di Massimo Triolo. La poesia è un’invocazione dell’anima.
Di Stefano Duranti Poccetti

Quando parliamo del poeta Massimo Triolo (giovane scrittore di Arezzo), ravvisiamo l’incontro tra concretezza e liricità, carnalità e musicalità. In effetti l’autore imprime alle sue liriche uno spessore fortemente concreto, ma non dimentica mai la bellezza del ritmo, come del resto la ricchezza di stile. Tutto questo lo ritroviamo nella sua ultima pubblicazione “Occhio e assenza”, una silloge poetica di 196 pagine pubblicata da Raffaelli Editore nella collana Nuova Poesia.

Lo affermo con forza, fino alla nausea, fare letteratura non consiste di un novero, un grigio archivio, una misera sequela di fatti privati. È turpe, disgustoso, consiste di una diurna tenebra, indulgere verso sé e la propria meschina fonte di celebrati atti conchiusi. Celebrate invece la vita, non una vita, non la vostra se non usando l’articolo indefinito, se non nella molteplicità cangiante e poetante del divenire – ma non diventate scrittori, perdio!…

In queste righe tratte dalla “dichiarazione di fini”, con cui il libro si apre, non è un caso che quello “scrittori” sia in corsivo, forse perché è diventato troppo facile apostrofarsi con questo termine, forse perché il mestiere dello scrittore è cosa seria e non basta saper mettere in armonico ordine frasi e parole per esserlo. Triolo richiama così la vera missione del poeta: quella di scavare nel profondo e d’immergersi nei meandri spirituali del mondo.
In questa corposa raccolta sono molti i temi trattati, che oscillano tra la filosofia, la politica, l’amore per la musica e l’arte. Quello che le accomuna è un certo impeto, che contraddistingue l’estro e la febbrile ispirazione dello scrittore, capace di creare metafore dal suggestivo gusto simbolico, anche molto toccanti sotto la veste emotiva. In queste liriche quindi c’è molto d’istintivo, fattore che viene arricchito e setacciato da una meticolosa attenzione lessicale, che rende il complesso denso e ricco, nonché musicalmente attraente.

È mia la scena interiore che profetizza
indocili eventi,
e non addiviene ad alcun mite dubbio
sull’arco del suo orizzonte propalatore
d’eternato canto.
Essa smunge ogni attesa
e adduce temperanza,
governando il fuoco perché non si faccia incendio.
Io, ora, invento gesti che nessuno sa inventare,
per carezzarla dagli orli al suo fondale magato –
deprivato d’essere e proteso al silenzio asciutto
e benevolo
delle deposte armi.
Non è la pace che la misura palmo a palmo,
non i larvali amori della più crudele stagione,
non i segni ignoti
delle grammatiche di un destino.
Io non avrò una quieta morte.
“E tu, perché? Che diritto, che merito?
Estate e inverno,
il pianto acre di una donna,
il conforto della religione,
questi provvisori soli…”
Niente m’è quiete di tutto questo.

Si tratta della poesia “Ad Alfio”, Alfio amico di famiglia e non un Alfio qualunque, ma quell’Alfio Valdarnini, che fu drammaturgo e scrittore. In tal caso troviamo un Triolo più asciutto rispetto ad altri suoi cimenti, ma che non perde mai di vista la consistenza del linguaggio, attraverso il quale i contenuti s’infiammano di forza viscerale. La dimensione visionaria s’incontra e si scontra con una realtà a volte positiva, a volte dolorosa, dove la vita si propaga nella moltitudine delle sue sfaccettature, che il poeta, non a caso anche disegnatore, sa dipingere come un pittore.
“Occhio e assenza” è in definitiva un volume indispensabile per comprendere la poetica di questo autore, visto che si tratta della sua raccolta di liriche più matura e completa finora pubblicata (dopo “Due chiacchiere con il diavolo” con Zona, “In ritardo sulla scena” per Akkuaria e “Acini di sangue” con Ensemble). Grazie al suo impegno poetico si può comprendere una cosa che ci dà sicuramente sollievo: la poesia italiana non è morta, ma vi sono giovani autori di profondo interesse. Uno di questi è proprio Massimo Triolo, capace di unire in sé sogno e realtà, concretezza e leggerezza, questo con un percorso che parte dall’intimo e che poi giunge al piano universale, proprio perché la poesia è un prodotto serio, quasi sacro, emblema dell’uomo e della natura, non per questo lo scrittore ricorda: “Non cercatemi nei versi più altisonanti e tondi, cercatemi per dove sono passato senza esserne perfino io avvertito!”.

Dalla rivista “Il Borghese”, marzo 2019

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