Trieste – Casa Circondariale di Trieste, 17 giugno 2019, SOMA / la parte corporea dell’uomo
All’interno del carcere di Trieste, tra le attività finalizzate allo “sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera” prevista dalla legge n.354 del 1975 (Ordinamento penitenziario), si è svolto quest’anno il laboratorio teatrale “Il Teatro delle ceneri” condotto dall’Associazione Fierascena, compagnia teatrale professionale fondata e diretta da Elisa Menon e facente parte del progetto S.F.I.DE. 2 – Sistemi per la formazione e l’inclusione di Detenuti/e sostenuto dal Comune di Trieste in collaborazione con la Comunità di San Martino al Campo.
Il percorso si è concluso con la rappresentazione di una performance che ha visto protagonisti alcuni detenuti assieme alle attrici Stefania Onofrei e Miriam Rizzo, con alcuni interventi di Elisa Menon e la collaborazione di Giulia Deboni, assistente alla regia.
Il pubblico, costituito da persone recluse e da ospiti esterni, ha assistito allo spettacolo realizzato all’interno dell’Area Trattamentale, una sala entro la quale si svolgono attività scolastiche e culturali anche, come in questo caso, assieme a volontari o in generale a “coloro che, avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti, dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera.”
Alcuni si sarebbero forse aspettati un esempio di teatro civile o un’azione di denuncia attraverso lo strumento del teatro.
Invece, quel che si è visto è stato davvero sorprendente per la delicatezza, l’intensità, la dolcezza espressa dagli attori.
Suddivisa in una serie di quadri centrati “sul tema della trasformazione (obbligata o possibile)”, la messinscena ha legato le parole a brevi interventi musicali (Vivaldi, Bach, Chopin e Liszt, ma anche Peter Broderick, Janis Martin e i Radical Face, o ancora Jóhann Jóhannson e Max Richter), ma soprattutto si è focalizzata sulla gestualità che ha sostenuto – con grazia e leggerezza da una parte, rigore e precisione dall’altra – i testi, tratti da classici della letteratura e della drammaturgia, ma non solo.
Al centro, una riflessione per niente scontata e ricca di suggestioni intorno al termine “soma” che nella lingua italiana, grazie ad alcune modificazioni avvenute nei secoli, porta su di sé due diversi significati provenienti da due distinte parole di origine greca: σωμα (soma, appunto: corpo) e σαγμα (sagma o sauma: carico, basto).
In un lunedì mattina di metà giugno è apparsa, nel carcere di Trieste, un’incantevole bolla
di libertà. In essa la consapevolezza di sé, espressa da ognuno degli interpreti, si è diretta con dolcezza verso gli altri per costruire un sistema di relazioni improntate sulla gentilezza e il rispetto. Semplicissimi gli oggetti di scena: un lungo tavolo, alcune sedie, piatti, forchette e bicchieri, usati di volta in volta attraverso il superamento della funzione quotidiana per affidarvi un significato simbolico ad alto livello di astrazione.
Se tutto ciò ha colpito non poco il pubblico proveniente dall’esterno, ben più rilevante è descrivere quel che si è percepito dai commenti dei compagni che hanno potuto essere presenti: a poco a poco gli spettatori si sono trovati immersi in una dimensione nuova, attratti irresistibilmente in quella bolla e accolti con naturalezza in un altrove carico di poesia, caratterizzato da un tempo rallentato e denso, dominato da garbo e sensibilità.
“Vivo di ciò che non ho, a volte di ciò che non è.”
Paola Pini