Trieste, Politeama Rossetti – Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Sala Bartoli, dal 4 al 8 dicembre 2019
Non è facile rendere drammaturgicamente coerente ed efficace un romanzo breve come “Il gatto” di Georges Simenon, giocato tutto su atmosfere e interiorità, costruito quasi senza dialoghi e sviluppato prevalentemente nel silenzio dei personaggi.
La traduzione e l’adattamento realizzato da Fabio Bussotti per lo spettacolo diretto da Roberto Valerio, in scena alla Sala Bartoli del Rossetti di Trieste, ci riesce appieno attraverso un ritmo da danza macabra, griglia che sostiene senza costringere, unito alla notevole capacità degli interpreti di alternare con abilità sentimenti anche molto distanti, mantenendo l’espressività su tonalità tenui in netto contrasto con la violenza insita nelle parole dei personaggi e nei pensieri, esplicitati come didascalie di un film muto.
Alvia Reale è Marguerite, ma anche le altre donne passate e presenti di Émile, impersonato da Elia Schilton nel rispetto letterale di alcune riflessioni offerte dal testo originario; ad essi si aggiunge Silvia Maino, la signora Martin usata ad un certo punto da Marguerite come arma per colpire il marito.
Un lento stillicidio si consuma tra le mura domestiche di una famiglia tardiva, l’unione tra due vedovi legati da vincoli troppo tenui per comprendersi e amarsi, ma troppo fragili per lasciarsi, spaventati maggiormente dalla prospettiva di restare di nuovo soli.
Il gatto di lui e il pappagallo di lei sono le vittime sacrificali di una relazione malata che riesce a sussistere soltanto nel silenzio più totale, strumento necessario per tollerare le rispettive manie, vissute dall’altro con fastidio e insofferenza.
Si tratta di qualcosa di più dell’immagine stereotipata dell’essere “separati in casa” perché in realtà ciò cui si assiste è una reale convivenza, un sostegno reciproco basato sul disgusto, ma non per questo meno solido, in grado di esplicitare con lucidità e di portare alle estreme conseguenze le idiosincrasie interne a tante coppie.
Le scene di Francesco Ghisu e le luci di Carlo Pediani, unite al suono di Alessandro Saviozzi, sono assolutamente funzionali a dar senso al tempo che scorre e alle tante vicende che si susseguono generando un senso claustrofobico che cresce progressivamente, inesorabile fino alla fine.
I costumi di Francesca Novati riescono a dare con immediatezza al pubblico le informazioni necessarie per comprendere fin da subito le personalità di Marguerite ed Émile, duellanti impassibili alle sofferenze causate, e della signora Martin la comprimaria, testimone suo malgrado non di ciò che avviene, ma piuttosto della prospettiva che la donna vuole dare di un matrimonio di certo infelice, ma forse, nonostante tutto, essenzialmente non sbagliato.
Si completano a vicenda, i due.
La violenza agita sugli animali, compagni di vita appartenenti al passato di entrambi, li porta a raggiungere una situazione di compromesso, un equilibrio instabile vissuto nel silenzio verbale più totale, mai spezzato.
La comunicazione si mantiene, attraverso l’uso di bigliettini, “urlati” all’altro attraverso gesti violenti, chiarissima espressione di disprezzo, ma impossibili da interrompere.
Il tentativo di allontanamento messo in atto da Émile naufraga rapidamente, perché la loro relazione è una forma estrema di dipendenza, nel bene e nel male, “finchè morte non li separi”.
Paola Pini