“JOJO RABBIT”, GUARDARE L’ORRORE AD ALTEZZA BAMBINO

Data:

Quando la testa intreccia troppi ammassi e monta inesorabili sovrastrutture; quando mette veli durissimi per coprire la verità, quando cerca di trovare motivazioni dietro a cose che un senso non ce l’avranno mai; quando il cuore si svuota di amore, si assenta dal palcoscenico della vita, scende, si mette in un angolo e si chiude in se stesso; e quando l’uomo sceglie di tornare allo stato di animale percorrendo strade di lucida follia, allora occorre abbassarsi fino a tornare al punto di vista dei bambini: all’altezza fisica – poca – da cui guardano il mondo; all’altezza morale e umana – tanta – da cui contemplano la semplicità della vita. È necessaria la loro visione: basilare, ma essenziale, netta, senza chiaroscuri, estremamente razionale e puramente libera, per quanto disarmante nella sua genuinità e ovvietà. Jojo Rabbit di Taika Waititi fa in sostanza questo: adotta il punto di vista di un bambino di 11 anni, Jojo, per raccontarci quella tragedia immane e permanente dell’Olocausto. Come avevano fatto, prima di lui, Roberto Benigni con La vita è bella, o Mark Herman con Il bambino con il pigiama a righe (per citare due esempi famosi): in tal senso Jojo Rabbit si inserisce in quello che può essere considerato, ormai, un vero e proprio genere narrativo cinematografico. Ma lo fa a modo suo, con le sue armi, e con il suo taglio: le armi dell’ironia, della satira e della parodia per raccontarci che il diverso in realtà è uguale; e il taglio di un tenero romanticismo per ragazzi per fare la guerra all’orrore dell’Olocausto.

Waititi opera il suo film con un accurato lavoro di innesto e di ibridazione stilistica: impianta dentro il dramma storico gli abbracci e le battute tra Jojo e il paffuto Yorki, scegliendo la chiave dell’ironia e del sentimento; la macchina da presa rivela e nasconde la tragedia, adottando a volte il punto di vista adulto, che Jojo non può evitare, e a volte restando ad altezza bambino, relegando la violenza al fuori campo: il film cammina oscillando tra fiaba teen e dramma storico, con fare ciondolante e stravagante, diretto ma pirotecnico, deciso a decostruire in chiave farsesca e grottesca gli eventi, facendo il verso a certo Cinema di Wes Anderson soprattutto, ma anche di Spielberg, e per altri aspetti dal gusto tarantiniano. Quando Jojo scopre che nel sottotetto di camera di sua sorella (morta precedentemente) la mamma sta nascondendo e proteggendo Elsa, una ragazza ebrea, dovrà mettere in crisi i duri principi del nazismo in cui crede, e che il suo amico Hitler immaginario continua a ribadirgli con scanzonato realismo. Jojo accetta di non svelare quel segreto, e a piccoli passi inizia a comprendere, lasciando che sia il cuore a costruire e raccontare la verità, ad innestare una storia di amore dentro una Storia di morte e sofferenza, e così compiere il miracolo della vita. Comprendere, in fondo, è il verbo che pone l’amore sopra tutto. Jojo lo fa con la naturalezza del bambino; e Jojo Rabbit si configura, in ultima analisi, anche come racconto di formazione, perché forma all’amore e al saper amare. L’amore che sopravvive anche alla morte.

Il film di Waititi è frizzante e divertente, esplosivo. Non cade nella facile retorica, e solo in rare circostanze ricalca stilemi consueti e desueti tipici del racconto di formazione con certe scene che sembrano inserite senza una vera logica narrativa più ampia; ma mantiene un equilibrio costante, mai facile, tra la risata e la lacrima, e lo fa perché non si scompone a ragionare troppo, resta spensierato ed ingenuo, diventando così esso stesso “film-bambino”. E allora la risata, allungandosi il più possibile, ha il compito, arduo ma necessario, di interrompere la lacrima, donarle un senso di speranza in un mondo di macerie post-bellico. Donarle un tocco poetico svagato tra un’umanità de-umanizzata.

Voto 7,5 su 10

Simone Santi Amantini

Seguici

11,409FansMi Piace

Condividi post:

spot_imgspot_img

I più letti

Potrebbero piacerti
Correlati