Al Teatro Carcano di Milano è in scena per poche date l’ultimo lavoro del coreografo italiano Fabrizio Monteverde, Io, Don Chisciotte, opera in un solo atto su musiche principalmente di Ludwig Minkus, come per il balletto classico, messo in scena dal Balletto di Roma.
Questo lavoro segna il ritorno di Fabrizio Monteverde, coreografo geniale e da sempre innovativo, al Balletto di Roma, in occasione dei sessant’anni anni dalla sua fondazione (1960). E’ del 1976 il debutto del coreografo nel mondo dello spettacolo: attore ed aiuto regista di Muzzi Loffredo ne Un Giorno Lucifero; inizia anche a studiare danza presso il Centro Professionale Danza Contemporanea di Roma, con maestri come Carolyn Carlson e Moses Pendleton. Nel 1984 si trasferisce a Parigi dove perfeziona gli studi di danza contemporanea; tornato poi a Roma crea Bagni Acerbi, collocandosi così tra i nuovi nomi della coreografia italiana; da questa esperienza nasce la Compagnia Baltica, di cui sarà direttore fino al 1992. Nel 1988 inizia la collaborazione con il Balletto di Toscana, diretto da Cristina Bozzolini, per cui crea moltissimi lavori fino alla chiusura della compagnia, nel 2000: Era Eterna, Bene Mobile, Giulietta e Romeo, Pinocchio, Dedica, Otello, La Tempesta, Barbablù. Lavora per le più importanti compagnie di danza come MaggioDanza, San Carlo di Napoli, Arena di Verona, Carlo Felice di Genova, Regio di Torino, Opera di Roma, Scala di Milano. Da vent’anni dura il suo sodalizio con il Balletto di Roma: Giulietta e Romeo, Cenerentola, Otello, Bolero, Il Lago Dei Cigni, Ovvero Il Canto ed ora, Io, Don Chisciotte.
Nella sua versione del capolavoro di Miguel De Cervantes, Don Chisciotte incarna la doppiezza, la confusione degli opposti. Di sicuro nessuna Kitri o Basilio, nessun tutù rosso o punte in scena: i rottami di un’auto abbandonata sono un moderno cavallo Ronzinante, ed il protagonista passa attraverso avventure sconnesse e poco calcolate, imponendo la propria illusione sulla realtà con eroico sprezzo del ridicolo: elemento disturbante ed artefice del caos, in fondo ci dimostra che ogni cosa, ogni persona è sempre altro da quello che dice di essere. L’errore è verità e la verità è errore in una società che, soprattutto per un eroe poeta, folle, mendicante come quello immaginato da Monteverde, è alla rovescia: il mondo è sempre diverso a seconda del punto di vista da cui lo guardiamo.
Il coreografo torna al lavoro dopo anni di silenzio in cui ha vissuto a Cuba: questo Don Chisciotte bizzarro, pazzo cavaliere animato dall’idea di combattere per una giusta causa, lo ha felicemente riportato a far danzare quei valori umani ed artistici rappresentati da un protagonista che, grottescamente, contrasta i privilegi, spesso sordi e ben ovattati. Io, Don Chisciotte rappresenta la rivincita del senso individuale contro il dominio dell’astratta universalità delle leggi umane: una lotta contro i mulini a vento che diventa metafora della ricerca di un’identità, di quella persa dell’uomo fuori dal tempo, guerriero che combatte una guerra già finita e che si è smarrito nella pazzia o nell’ignoranza di Sancho Panza. Il tutto parte dal chiedersi chi possa essere oggi Don Chisciotte: sicuramente un diverso, qualcuno fuori dagli schemi e dalle regole, qui è un vagabondo perso nei suoi libri. Francesco Costa è bravissimo nel suo ruolo un po’ stralunato ed un po’ eroe, vestito solo con biancheria intima ed un cappotto, tecnicamente impeccabile; originalissima l’idea che Sancho Panza possa essere una donna, addirittura una senzatetto incinta: Azzurra Schena è incredibilmente convincente, tecnicamente ed espressivamente; i due affrontano avventure poco esaltanti, la loro è una lotta alla sopravvivenza in un mondo violento ed indifferente, dove spesso hanno la peggio. Nessun torero o ballerine di strada, solo i costumi di Santi Rinciari, peraltro molto semplici, ricordano la Spagna con qualche volants e inserti rossi. Le Driadi, leggiadre ed eteree protagoniste del secondo atto del balletto classico, quando Don Chisciotte sogna, sono qui un gruppo di prostitute, tra cui c’è pure Dulcinea, Roberta De Simone, bella ma con un lato perfido e gelido.
Dal punto di vista coreografico non c’è un attimo di tregua, è molto impegnativo tra entrate, uscite, passi a due, prese e lanci, equilibri e sospensioni. Il tocco di Monteverde, che firma anche regia e scene, è inconfondibile e, come sempre, ci stupisce per la sua originalità, specialmente in un lavoro come questo, classicissimo, visto e rivisto in mille versioni. La compagnia diretta da Francesca Magnini conta in tutto dodici danzatori: bravissimi, tecnicamente impeccabili, forse l’interpretazione, esclusi i protagonisti, lascia un po’ a desiderare; ma l’insieme riempie veramente d’orgoglio per i talenti nostrani, che, non supportati dalla struttura di un teatro lirico, dà la paga a molti. Assolutamente da vedere.
Chiara Pedretti