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Il sapore della ciliegia (Ta’m e guilass)

Data:

IRAN 1997 95′ COLORE
REGIA: ABBAS KIAROSTAMI
INTERPRETI: HOMAYOUN ERSHADI, ABDOLRAHMAN BAGHERI, AFSHIN KHORSID BAKTHIARI
VERSIONE DVD: SI’, edizione BIM

Nei dintorni di Teheran, in una collina brulla, vicino all’unico alberello visibile c’è una fossa che attende solo di essere riempita: a scavarla, per sé stesso, è stato un uomo di mezza età, il signor Badiei (o Badii), deciso a suicidarsi. Ha già stabilito il quando e il come: di notte, prenderà dei sonniferi e si sdraierà nella fossa aspettando che tutto si compia. Ma ha bisogno di un collaboratore che lo venga a seppellire una volta morto, oppure che lo tiri fuori nel caso in cui sia sopravvissuto. Per questo, l’uomo si mette alla ricerca spasmodica di un “assistente”. Dopo aver ricevuto il rifiuto di due giovani – un soldato curdo e un seminarista afgano – trova nell’anziano Bagheri, tassidermista al Museo di Scienze Naturali della capitale, l’uomo disposto ad aiutarlo.

Abbas Kiarostami (1940-2016) è stato il Padre Nobile del cinema iraniano e il regista che, con le sue opere, ha imposto la “scuola persiana” all’attenzione del Mondo, spianando la strada a colleghi del calibro di Jafar Pahani (Il cerchio, Oro rosso), Mohsen Makhmalbaf (Il silenzio, Viaggio a Kandahar) e il due volte premio Oscar per il Miglior film straniero Asghar Farhadi (Una separazione, Il cliente). Lo stile narrativo di Kiarostami – e del cinema iraniano in generale – coniuga neorealismo e poesia per raccontare il proprio Paese attraverso storie che, in realtà, vanno oltre e acquisiscono una portata universale, riuscendo a parlare agli spettatori di ogni nazionalità e cultura.

Il sapore della ciliegia, meritata Palma d’Oro a Cannes 1997 – ex aequo con L’anguilla di Shohei Imamura -, è la summa della poetica di Kiarostami e l’apice di una sua carriera che, con il successivo Il vento ci porterà via (1999), vedrà la conclusione di un periodo artisticamente memorabile e irripetibile, inaugurato nel 1987 con Dov’è la casa del mio amico?.

Autore, oltre che della regia, di soggetto, sceneggiatura e montaggio, Kiarostami affronta nel film un argomento difficile e scabroso, cioè l’atteggiamento dell’Uomo di fronte alla morte. Per farlo sceglie uno stile improntato alla semplicità e al pudore, riducendo i dialoghi al minimo e lavorando di sottrazione (il protagonista non spiegherà mai i motivi che l’hanno portato a prendere una decisione così estrema). Il risultato è una storia verosimile e intensa, che cattura ed emoziona nella sua durezza spoglia ma non priva di impennate liriche.

L’auto di Badei è il luogo in cui è ambientata la maggior parte del film, sia che si tratti dell’abitacolo, oppure dell’esterno, con lunghe riprese in campo lungo (le stesse che si rivedranno in Il vento ci porterà via) che mostrano il veicolo mentre si sposta lungo le strade sterrate delle colline intorno alla città, permettendo comunque allo spettatore – nonostante la “distanza” dalla scena – di ascoltare i dialoghi tra i personaggi.

Il paesaggio aspro e ostile, ma indubbiamente affascinante, che caratterizza i dintorni della capitale iraniana gioca un ruolo tutt’altro che secondario nell’economia del film, accrescendone la forza lirica e favorendo momenti di pura contemplazione, esaltato da una fotografia che cattura alla perfezione l’atmosfera arida di un orizzonte mai del tutto limpido e le sorprendenti tonalità cromatiche (con dominio pressoché totale dei “colori della Terra”) che la Natura è in grado di mostrare.

Le toccanti riflessioni di Bagheri, che cerca di dissuadere l’aspirante suicida, sono un inno alla vita e alle sue stagioni (il titolo del film fa riferimento proprio a uno dei piaceri irrinunciabili che, secondo Bagheri, la vita offre a chi ha la pazienza di aspettare e la capacità di apprezzare), che dobbiamo accettare nella loro continua alternanza di bello e cattivo tempo. Ma l’accorato monologo dell’attempato imbalsamatore non sortisce l’effetto sperato, e Badiei procede imperterrito nel suo proposito, anche se non ci è concesso sapere con quale esito: di fronte all’ignoto, il regista decide comprensibilmente di fare un passo indietro e calare il sipario prima che giunga il culmine della vicenda. Poi, ricorrendo a un espediente narrativo tipico del cinema iraniano (ma non solo), chiude con una sequenza in cui mostra sé stesso, la troupe e gli attori durante le riprese del film, ristabilendo il contatto con una realtà che il clima più rilassato e la Natura verdeggiante e fiorita rendono un po’ meno dura rispetto a quella mostrata dal film (che si tratti di una timida apertura all’ottimismo e alla speranza?). Allo spettatore, in definitiva, è lasciata piena libertà di trarre le proprie conclusioni: Kiarostami non giudica, né impone una morale alla sua storia e, al cospetto di un argomento di tale portata, sceglie il silenzio.

Il protagonista Homayoun Ershadi, bravissimo nella sua enigmatica impassibilità, all’epoca era un architetto senza alcuna esperienza nel campo della recitazione, quindi la sua carriera di attore è cominciata proprio con Il sapore della ciliegia: che esordio!

Francesco Vignaroli

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