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Progresso, in breve! (parte terza)

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Intervista immaginaria a uno scrittore ideale

– Ho preso visione della sua lunga lettera, lo stile è elegante e appropriato, niente di abborracciato, ma quanto ai temi e alle tesi che li sottendono mi trovo in forte disaccordo. Come si può falsificare la realtà al punto da considerare leggendaria un’esistenza fatta di piccole, futili cose che si ripetono uguali a sé stesse senza discreta eccezione? In questo, come in molti altri paradigmi, si dovrebbe distinguere l’opera dalla vita di un autore. Cos’è scrivere per lei?

– Beh, immagino che sia dare voce a qualcosa o a qualcuno che non l’hanno… Forse creare mondi, tessere delle tele, cucire ferite, a volte procurarne…

– Quindi lo scrittore sarebbe un operoso ragnetto che tesse una tela in attesa di sentire per suo tramite la vibrazione che gli segnala d’aver catturato?

– Penso che sia più o meno così, solo che lo scrittore non mangia le sue prede, vuole solo irretirle, catturarle in qualche modo.

– Lei mi ha definito un pregevolissimo artigiano della parola, ma sa dirmi cosa la parola sia?

– Se essa non è un orpello, se non ha intenti sofistici, è un mezzo, uno strumento per poter dare corpo a pensieri complessi e poterli condividere in modo veridico.

– Cosa c’è di veridico in uno scrittore? Assolutamente niente, egli è mentitore per definizione e se comunica, e lo sa far bene, il suo è un inganno e un arcano che inscena l’imponderabile come fosse un fatto consueto e le consuetudini come fossero altrettanti segni di incomunicabilità… una messa in scena da teatro di posa che più è realistica più finge, più vuol esser falsa e più rasenta la verità.

– Lasci che le chieda una cosa: nei suoi libri è centrale il tema dell’alienazione, dello straniamento e della dimensione drammatica e oppositiva tra uomo e donna, ma sembrano imputabili a una condizione ineludibile e primigenia, nel quadro di una forma di irrazionalismo spinto… È un’esigenza di concretezza contro costruzioni intellettualistiche e concettose che pretendono di esaurire con i propri quadri di logica e pensiero, la questione della verità?

– Tanto per cominciare ci dovremmo chiedere: ma la verità esiste? Io non so darne una definizione compiuta e concreta se non tradendo ciò che in essa ravviso. Posso solo applicare una formula di dialettica negativa e dire cosa, forse, essa non sia. Unitamente a questo posso affermare che essa ha a che vedere con la dimensione di soggettività in lotta fra loro per imporre un dominio e che riconducono ogni esigenza all’attuazione del proprio primato (sia esso materiale, sia esso di pensiero). Ma in che modo? Facendo del concetto di verità un alibi per la sopraffazione, una costruzione astratta che avalli le loro conquiste concrete. Ogni costruzione metafisica ha avuto nella storia questo ruolo. Forse la sola via d’uscita sarebbe collocarla lontano da logiche dell’utile, restituirle l’imponderabilità e lo spessore di ciò che nella vita avviene in termini di dono: qualcosa di sorgivo che affermi la ripetizione di un identico insostituibile e quindi tutt’altro che seriale. Si possono far rimontare al dono molte cose concrete che si avvicinano tutte all’autenticità. Forse la domanda non è ciò che è la verità, ma come si può esprimere o conseguire l’autenticità.

– Ero solo uno studente quando ho letto per la prima volta il suo più noto romanzo ed ho ancora ricordi vividissimi, ma in forma di suggestioni estetiche, sensoriali, atmosfere e dettagli simili alle concrezioni di uno splendido quadro materico. Esistono dei fatti, degli avvenimenti, degli snodi che nella sua narrazione hanno misura discreta e prevalgono con la loro logica su ciò che è più preconscio, affettivo, pervasivamente legato all’intuizione (sia quella empirica, concreta, che quella tale da condurre in modo non logico, diretto e immediato a una verità, e che si manifesta allo spirito senza bisogno di ricorrere al ragionamento)?

– Tutto questo mi pare fumosamente concettoso. Pensi invece al lavorio dei fuchi o di una formica operaia, hanno qualcosa di perfetto, parlano la lingua della natura, ma in uno schema di relazioni di assoluta subalternità e sacrificio rispetto a quello che potremmo definire il “bene comune” della loro specie. Penso che il più grande inganno esistente e risalente al contrattualismo moderno, sia il concetto stesso di Bene Comune. Forma generalissima e astratta riferita a un soggetto sociale fittizio e inclassificabile a livello identitario se non attraverso la formula dell’uguale in luogo dell’identico. Si sacrificano a esso, con una falsa veste assiologica, le più fondamentali libertà dell’individuo. In questo schema la vita non avviene realmente, esiste solo la tirannia dei fatti e dei numeri.

– Lei si sente libero?

– Sono libero non nella misura di operare preferenze fra ciò che mi apparecchia il sistema a livello di scelta, e anche in questo senso pensieri e orientamenti divengono beni di consumo, ma in quanto salvaguardo la mia identità dal numero organizzato e dalle leggi del consumo, dalla logica del prendere e dell’avere che interdice il dono dall’orizzonte del desiderio.

M. T.

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