Parlare di Marco Gal (Gressan 1940- Aosta 2015) è affondare con lui entro una terra quella del Val d’Aosta da lui pienamente incarnata in un racconto a largo raggio che passa anche dalla saggistica alla prosa, alla cura di antologie entro una presenza vivacissima che lo ha visto oltre che redattore della rivista “La revue Valdôtaine” tra i fondatori dell’ “Association des Poètes Valdôtains”. Per più di trent’anni alle dipendenze della Biblioteca regionale di Aosta, ha saputo restituire il suo amore per questa Valle, per le sue montagne e i suoi uomini entro una valorizzazione di quel patois, varietà della lingua dialettale della lingua francoprovenzale parlata in valdaosta, a cui è arrivato non subito ma dopo i quarant’anni dopo gli esordi in lingua, sulla spinta come è stato più volte rilevato della poesia di Eugenia Martinet. Lingua del sangue, come da lui stesso definita, più adatta a restituire della realtà le modalità più autentiche delle sue radici, dei suoi significati, delle sue appartenenze (questo a conferma di quanto già espresso al proposito da altri autori di poesia in dialetto, basti pensare senza andar tanto lontano al caso di Remigio Bertolino, autore in occitano-piemontese di Mondovì). Così nelle aperture di una memoria come metronomo di un osservare mai disgiunto alle risonanze di un tempo di ritorno perché sospeso nell’immobilità di immagini eterne perché d’ogni uomo, d’ogni donna nell’abbraccio delle generazioni, Gal tenta nell’illusione di fissarle ancora e con più forza in quell’abitare umano sempre più separato da una terra cui rischia più di appartenere perché non contemplata nella demonia di un esercizio che lo vuole irriflesso e solo nel proprio pensarsi. Per questo allora il richiamo più evidente è al mondo dell’infanzia, spazio di struttura dell’immaginario e dell’appartenenza nel costume di un reciproco riconoscersi e indossarsi diremmo, e non solo nella carne, nella dilatazione a giocarsi con quella natura che nel suo investire e comprendere seduce ed espande. Di qui allora quella visione di bellezza e autenticità sempre presente (espressa da Keats in quell’indimenticabile verso “un pensiero di bellezza è una gioia per sempre”) anche come purezza delle cose, nelle cose.
Alla lingua allora, solo alla lingua (quella lingua”non appresa ma vissuta, succhiata col latte materno e cresciuta nella propria carne e nel proprio spirito, e metamorfizzata nella lingua eterna della poesia”) è demandata nella spina di una natura ora dolce ora aspra nell’interiorità di parole come di ripa “pouëgnente et créntye” (pungenti e sensitive) l’universalità di un mistero, quello dell’esistenza, trasfigurato nelle figure e nei luoghi (la casa, il villaggio e la montagna in questo caso ma anche i suoni e le voci) che nel dirsi, nel dirci ci confermano. C’è un testo tra gli altri che a nostro dire è bene riportare perché più che esemplare nella sua poetica, ed è “Parfeun”, profumo non a caso, in cui il discorso della compresenza del tempo è dato nella fragranza di un antico ricordo nell’uscita dalla notte verso casa col nonno entro una slitta carica di pane provenendo dal forno. Così se la bellezza è data entro un abbraccio in cui tutti gli elementi paiono realizzare se stessi nella compartecipazione, pure Gal si preoccupa di sottolinearne la risalita nella stonatura di un presente ontologicamente irrisolto e irrisolvibile nel dramma molto moderno di una condizione che ha proprio nella disappartenenza il sintomo del suo non ritorno, del suo patire più vero. Per questo allora Gal ci appare soprattutto poeta del dolore- e dunque del coraggio- nella sua rincorsa al ricordo, al mantenere là dove è la vita- e la gioia- la coscienza di un umano smarrito all’interno di una sacralità (cui pur la parola chiamata non cessa di levarsi) sfuggente cui questa poesia prova a contrapporre proprio nella sua nominazione l’indice sempre vivo del suo incipit, del suo- anche in noi- eterno ricominciare. Perché infatti tanta parola, tanto magnificato splendore a trarre dai campi, dalla neve quelle voci, quei ritorni, quegli elementi che cercano riconoscimento, che attendono “lo son de leur son” (“il suono del loro suono”) ci appare nella dolenza lo strenuo tentativo di sfuggire a una morte, non personale, o almeno non solo personale o solo quella di un mondo e di una terra che non è più, che non può più ma quella più universale- è bene ripeterlo sempre- di una terra tutta in questi versi appesa- più sovente forse rappresa- nella circolarità dei suoi vivi e dei suoi morti (“fantome que vouon pa s’amorte” -“fantasmi che non vogliono spegnersi”) nell’appello come dicevamo a un divino nel ricordo di un legame dato nel paesaggio, dal paesaggio nel concorso di un affermativo e faticoso investire (e di cui la madre nei suoi peccati di speranza finisce con l’esserne emblema).
Si legga “Complete di- vequé-o” (“Lamento del Vicario”), in cui il ministro di Dio, nella cadenza di una parola che è quella della liturgia, compiange la miseria di una fede che è anche la propria, di una chiesa (quale metafora!) disperante aggrappata ad una montagna da cui non riesce più a sentire del Signore la voce ma solo quel grido che è del Silenzio nel gelo di un “abimo de la solitùide/que l’oradzo de totte le pré-éye/reussèit pa a comble” (“abisso di solitudine/che l’uragano di tutte le preghiere/non riesce a colmare”). La poesia di Gal si sviluppa da questo costone, scontando tutta la difficoltà di una ragione più alta faticosa da comprendere nel suo disegno, e che il carattere lirico dell’invocazione tenta di trattenere entro una terra che però ritirandosi ritira con sé un po’ alla volta e per sempre anche l’amore. Una terra imprigionata come la Dora, nei recinti e nelle barriere di una pietra fatta di spirito perverso, di una vita piccola che è il vero pericolo che questa poesia tenta incessantemente di sconfessare, la morte, quella naturale, in realtà un mistero nel cui abbraccio di fusione saremo risolti. Andando a concludere, è un percorso quello di Gal nel richiamo ad una consapevolezza memoriale di una partecipazione attiva all’essere di una terra nutrita anche del nostro concorso, che al rischio di un futuro di cancellazione è necessario un ritrapianto delle radici là dove del mondo batte ancora “totta la meusecca” (“tutta la musica”) nella misura di una natura gioiosa, e insieme libera allora in quella forza che sa ergersi dalle nostre macerie. Altrimenti, ed è questa la nota che più ci resta, non resta che ricordare solo ciò che si è sognato, una volto trascorso ormai “lliouen/de l’atro coutë di ten” (“lontano dall’altra parte del tempo”). Per una lettura più approfondita della sua poesia segnaliamo intanto questi due testi, come sempre nella triplice versione in patois, francese ed italiana: l’antologia Séison de poésia, della Puntoacapo (2016) e Flë, Poésie de plèisi et de deplèisi, Edizioni Vida (2017).
Gian Piero Stefanoni