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Dubravko Pušek e Le stanze dei morti, la poesia di più patrie

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Autorevole e per certi versi esemplare potremmo dire la poesia e la figura di Dubravko Pušek, autore e traduttore croato ormai da cinquant’anni residente in Svizzera, a Lugano dove lavora per i servizi culturali della Radiotelevisione della Svizzera italiana. Entro una lingua italiana nella reciproca adozione di patria letteraria, la sua scrittura infatti ora come d’apolide e dunque più aperta e libera alle pressioni dal reale ora come da un’inclusione ben attenta alle proprie differenti e risonanti aspirazioni ha saputo progressivamente negli anni mostrare infatti del dire poetico tutta la forza di una unità cercata, curata ed espansa a partire dalle sue dispersioni, e dai suoi irrinunciabili frammenti. Direttore della rivista “Viola” e vincitore nel 2002 del prestigioso premio Schiller (il più importante riconoscimento elvetico), di lui ben ha rilevato allora Tonko Maroević a proposito di una sapienza saldamente iscritta alle incidenti matrici del novecento, da quelle del secondo ermetismo a quelle di area simbolista mittleuropea “per la convivenza organica della parola pura distillata con i tagli improvvisi di stampo espressionista”.  Questo allora a provenire da una zona, o da più zone d’ombra, a riferire del cuore, dell’anima, dagli apparenti refrattari spazi dell’essere e del mondo la spinta ad esserci, a marcarsi- e a marcarci- proprio dalle più impronunciabili disappartenenze. Per questo allora è interessante forse, in una parola abile a muoversi tra urti e dissonanti rivolgimenti di esclamazioni ed urgenze in un’epoca al confine di sé e dei propri smarrimenti, la rilettura e l’analisi a più di trent’anni dall’uscita (1986) di uno dei titoli più significativi, Le stanze dei morti per la cura delle Edizioni Casagrande di Bellinzona. Tra indicibilità di corpi perduti, rigidi tra lo sforzo e la resistenza (alla nascita, a una rinascita?) “perduti nell’inesistente” come a biascicare da un”oscuro nodo del ventre” sembra infatti la nostra stessa scena quotidiana nella dissolvenza delle inutilità delle proprie sillabe, i vivi- ma chi sono i vivi?- spettatori anche del proprio stesso inconfessato dileguarsi, solo una parte ferita, la parte ferita ad annunciarsi, e ad affermarsi tra le pareti di un incomunicato mistero.

L’esserci nel “morbido desiderio/dell’insicurità”, come di spina, cui nessun angelo da nessuna verticalità può sciogliere- ancora- nella “esistenza dei corpi/ segni notturni,/stelle,/costellazioni, fosfori”  e che ha nell’eterna auroralità la sua offerta ha il potere così come da passaggio trakliano (cui a tratti questa poesia si ricorda) nel toccarsi, nell’evocarsi dall’osso, il tentativo di risapersi, di rimisurarsi intanto e insieme, come a confortarsi- squamata l’anima- nell’accertamento delle identità. Dell’altra identità, quella che dalle labbra storcendo e chiedendo vita da ciò che appare solo una negazione tenta il solo spiraglio possibile quello della sua inesattezza, fessura- a fronte di ciò che potrebbe disperdere- di quell’immutato che pure- ancora- rode e perdura . Qui dunque sono le stanze, è la stanza da cui, in tutta la struggente tragicità dell’umano, il verso di Pušek prova a muoversi, nello scherzo, nella provocazione di riflessi al dileguarsi a tratto inverso dei bagliori (“qualsiasi grigio s’arrende/alla sua densità”), spazi e dimensione a specchi di esseri al sospetto di sé e di terre senza risposta. Di figure alla prova di una solidità che non s’invera perché cercata nell’altro (“Perché non sei, dove non esisti,/quando non accenni//non crederti vivo”). “Quale senso allora..” se nulla tra noi e tra noi e loro si rassomiglia viene da chiedersi, se non si può esistere dove non è possibile, aprendo il dettato non solo evidentemente a un rapporto tra chi ci lascia e resta ma anche come detto per certi versi a un’ oscurità del percorso che non è solo nella condizione di mortalità ma di un cercarsi, un inseguirsi, un riconoscersi adesso, e adesso in questo tempo così impalpabile e insieme progressivamente aggressivo dal cui abisso nulla sembra riemergere. Paradigma allora forse di una modernità sempre più nel tarlo della sua notte infinita (in “brocche aspre/ di ruggine”) cui Pušek nel viluppo di immagini ora “eteriche, diafane, cosmiche” ora “cupe, pesanti, telluriche” come rilevato ancora da Maroević tenta in qualche modo d’opporre “un’intonazione precisa, sostenuta, calibrata” col riuscito rischio di un esporsi che proprio da ciò che può perdersi ancora può dirci. Una voce allora quella di questo autore dalle tante patrie le cui incisioni dalle lame delle distanze di un’ Europa divisa ha forte il potere di richiamarci dallo sgomento al senso di un’appartenenza che viene dall’inafferrabile solitudine dei nomi, di tutti i nomi. Ed in quest’autorevolezza è la sua, e la nostra bellezza.

Gian Piero Stefanoni

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