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Fabio Grimaldi, Ardore di vita. (La Vita Felice, Milano 2021)

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Siamo grati a Fabio Grimaldi, cinquantenne autore marchigiano, per questo prezioso e coraggioso libricino nel quale è rievocata in versi la figura del poverello d’Assisi, il caro Francesco di Pietro di Bernardone, per tutti Francesco, il santo probabilmente più amato. Non nuovo a guidare le proprie interrogazioni alla luce di una fede inquieta, mai ferma a fronte del mistero e dei drammi dell’uomo del nostro tempo (si vedano solo i titoli di una produzione ricchissima nel confronto con gli ultimi, coi disagi spirituali di un moderno in abdicazione dal sacro) ci restituisce nelle tre sezioni di cui questo libro si va a comporre tutta la freschezza di una figura che ancora non cessa di attrarre nella chiamata ad una vocazione d’amore che è per tutti. Figura per questo di cui da sempre esiste tutta una costellazione di richiami, ritratti di cui soprattutto la tradizione poetica è ricca, tra i titoli volendo ricordare l’antologia curata da Tommaso Nadiani nel 1926, La fiorita francescana,  per l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo  in cui sono raccolte le testimonianze significative di settantasette autori da Jacopone a Govoni, da Dante a Pascoli. Dei nostri giorni ancora la cara Merini a celebrarne nell’umile gioiosità “il chiaro disegno di povertà come una veste ardita”. A questo ardimento, a questo ardore si rifà anche Grimaldi, nel segno di una incessante aderenza- ed aspirazione- dal basso di un Cristo sofferente all’eterna legge d’amore del Padre qui nel racconto allora di una spoliazione, dapprima dolorosa, combattuta, ricercata, poi finalmente abbracciata e servita nella filialità di un riconoscimento che sola può in creaturale partecipazione alla grazia.

Così come d’avvertenza da introduzione è lo stesso Francesco nella Porziuncola, in punto di morte, a rimemorarsi (e a rimemorarci nella comune inquietudine) nell’invito ai confratelli “a continuare la sua testimonianza”. Agiografia nota diremmo, eppure, ed è anche per questo che parliamo di gratitudine nei confronti dell’autore di Morrovalle, certamente più ricca della nostra memoria, nelle premesse, nelle sue promesse, nella densità dei suoi incontri e delle sue mortificazioni, delle sue sfide e dei suoi abbandoni, nella fantasia soprattutto di un entusiasmo al servizio come detto – e in lode- di una fraternità avvinta nella sua redenzione. Monologhi in versi nelle prime due parti (“Sulla giovinezza” la prima e “Sulla rivelazione” la seconda”) in cui Francesco ci riappare nei giochi d’infanzia e nelle piazze d’Assisi ad inventarsi cavaliere sotto lo sguardo affettuoso della madre, nell’intimità di una condizione nel benessere poi di un’adolescenza e di una prima giovinezza tra fascinazioni di Tavola Rotonda e raffinatezze d’abiti,  costumi di taverne e feste negli strattonamenti rapiti di ragazze. Di spinte ed attrazioni a vita d’armi (seppure già in sogno gli incompresi segni della chiamata ad essere “soldato di Cristo” non d’altre spade) nella prima missione volontaria in spedizione militare in Puglia dove l’ammalarsi piuttosto finirà col rigettarlo indietro, ad Assisi ancora, tra le perfidie dei compaesani e ritorni alla dissipazione. Ed è qui nelle crepe d’angoscia che pian piano iniziano a segnare la lotta tra un giocare a perdersi e il tentativo di “segni divini” a estirparlo dalla “aspra foresta” dei vizi, quella spinta dello Spirito a vincersi, a ricordarlo a sé nella fiamma “di una felicità sconosciuta”, nella grotta del Subasio a tu per tu in solitudine con Cristo, con la solitudine di Cristo. Rivelazione allora in cui Grimaldi con semplice e rara efficacia riesce a riportarci proprio dallo Spirito nell’alveo incessante dell’ esperienza trinitaria, nel segno di uno slancio che bramando il Padre va in cerca del Figlio, nel modello del figlio, nella docilità delle ispirazioni che gli vengono dalla Terza persona nel riprodurre nella propria vita di Cristo lo stesso mistero pasquale. Giacché questo infatti Francesco, non a caso sottolineato proprio da Dante  nel suo carattere di alter Christus, è venuto in sua stessa sorpresa a mostrarci, nuovo Adamo piuttosto, o Adamo redento nell’ abbraccio ad una povertà dapprima dell’anima più che materiale (di quella semmai veicolo), di un vuoto, terribile, accompagnato e accolto nell’impossibilità  e nell’inutilità, vana, dell’uomo a procedere da solo in un paesaggio, in un mondo che non gli viene da sé ma è dato nel fine divino.

Fratellanza ecco, nella parola riconquistata al suo sapore pieno, nell’immedesimazione con gli ultimi dove Cristo deposto agisce e chiama, la coscienza ora riposta ai piedi della Croce della chiesetta di San Damiano, nella trepidazione dell’assoluzione e del perdono, nel pellegrinaggio ininterrotto di un Lazzaro “risvegliato” alla linfa delle sue parabole. Il pazzo di Dio, il giullare di Dio, nella testimonianza della pace, in lotta per questo con le insidie del mondo e del demonio, vinte con la chiave della Somiglianza e nel “sigillo” dell’obbedienza e della povertà (“Recitavo il Miserere,/cospargendomi di cenere/dalla testa ai piedi,//meditavo il Miserere,/ricordando a tutti/ cosa siamo cosa diventiamo”alle tentazioni della ricchezza come Cristo rispondendo con la Parola, che è quella del Vangelo, nella meraviglia di un invito ad esser poveri nella conversione, nell’ammonimento di un tutto che andrà perso). Sempre la povertà dunque, non a caso in calce alla regola dell’ordine che da lui prende il nome, come accesso alla libertà del cuore (nell’incontro fondamentale anche con l’amata Chiara, “rosa sboccata dalla mano di Dio”);  sempre la mortificazione come letizia della somiglianza di cui s’è detto, di un corpo (vedi il brano a pagina 46) non rigettato nell’inutilità dei suoi stordimenti ma ritrovato nello svuotamento, nella conoscenza di una nudità che accomuna il creato tutto nello sguardo confidente e mito al vero della Provvidenza (“come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi”). Corpo allora  come soggetto del Padre, come strumento di partecipata lode (ed ecco infatti il suo “Cantico”), “instancabile servitore/irradiato di Spirito Santo” nel riflesso divino di un canto di gratitudine al Creatore, di “Lodi al Signore” con cui il libro di Grimaldi infine va a chiudere. E sul quale certo molto avremmo ancora da dire, e tanto, infinitamente tanto soprattutto sulla figura di Francesco ma lasciamo volentieri spazio ad altre più incisive ed autorevoli riflessioni. Solo andiamo a concludere sottolineando in Grimaldi, oltre all’intensità di un versificare che con intelligente maestria non va a sostituire il dettato del Santo (accompagnandone così invisibilmente la sostanza), il merito di aver riportato non nella gabbia della cartolina ma nel perché dell’uomo e della Croce tutto il mistero di un Amore che non può rigettare se stesso. In giorni di dubbi e di lontananza come questi, nell’esempio di Francesco, non è poco.

Gian Piero Stefanoni

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