Al Teatro Municipale di Piacenza, recita del 18 marzo 2022
Per tanto tempo è stato un titolo operistico che si nominava quasi con vergogna, con tema di essere tacciati d’insani amori musicali e di sorpassato melomane. In queste due ultime stagioni le cose sono radicalmente mutate e Adriana Lecouvreur è tornata vivacemente nei cartelloni dei teatri italiani. Si ricorda nella precedente stagione la doppia produzione (televisiva e teatrale) del Teatro Comunale di Bologna e quella del Maggio Musicale Fiorentino; in questa invece l’allestimento del Teatro alla Scala e la nuova produzione partita dal Teatro Comunale Pavarotti-Freni di Modena (dove mancava da trent’anni) che ha raggiunto il Teatro Municipale di Piacenza. Adriana Lecouvreur è un’opera spesso mal compresa, ridotta agli sfavillii di superficie e ai facili abbandoni di cui Cilea è abile tessitore. Certamente, questo è elemento diffuso e confermato, il gioco del Teatro nel Teatro, in Adriana, è non solo cornice ma anche soggetto importante e portante dell’opera stessa. Come in un gioco di scatole cinesi il Teatro, in Adriana, è presentato in tutte le sue componenti: il pubblico, che compare sia nel primo atto sia nel terzo, e dal quale la Lecouvreur si scosta violentemente chiamando i suoi componenti profani, elevandosi a divinità: Melpomene son io!. Le quinte, luogo dove si celano le pulsioni umane dell’opera stessa come i baci e le confessioni amorose, in pieno contrasto con il mondo esterno che appare desto mentre Adriana riposa; il palco, dove Adriana, nella sua più totale solitudine rinchiude tutte le angosce e le sofferenze della realtà, al fine di far tornare al serraglio l’augusta sua pace. Adriana stessa, quale personaggio, è icona di Adrienne Lecouvreur, attrice della Comédie Française, e allegoria del Teatro. Tuttavia, limitarsi a questa lettura non restituisce l’impianto filosofico che la sorregge, o meglio che la attraversa dandole struttura e corpo. L’opera è, infatti, pervasa dal naturalismo francese e dalla sua visione determinista. I destini dei vari personaggi, così come quelli dell’uomo, sono rigidamente condizionati dalle strutture sociali, i quali non possono fare altrimenti che subire gli accadimenti, impossibilitati a cambiare gli eventi passati che li hanno determinati. Per questo, Adriana, pur essendo al massimo della sua fama e del suo successo, non riuscirà ad avere l’amore di Maurizio di Sassonia; Michonnet, il direttore di scena innamorato della Lecouvreur, non potrà che esserle padre e tutore; Maurizio, principe e valoroso militare, solo nel fingimento può amare Adriana, e finirà per subire il fascino del potere e della donna che, per condizione sociale, le è simile. La Principessa di Bouillon, spesso identificata come personaggi negativo, è vittima e prigioniera della sua condizione e dell’inquadramento sociale che ne consegue, e non delle sue passioni. È in questo difficile gioco di trasparenze e sovrapposizioni che gli interpreti devono muoversi, con intelligenza e gusto, perché Adriana Lecrouvreur non diventi un’opera di maniera, un ninnolo in stile, o un feuilleton da salone di bellezza. L’edizione che gira per i Teatri dell’Emilia in questa stagione e che abbiamo visto a Piacenza, per colpa della scarsezza d’idee e della fragilità degli interpreti – pur con i dovuti distinguo – si è dimostrata debole sotto molti punti di vista. La direzione di Aldo Sisillo non è andata oltre la scontata routine, senza sondare il turgore floreale, le trasparenze e le voluttuosità, nelle cui spire giocano Eros e Thanatos, di cui Adriana è ricca. Il gesto di Sisillo, insieme alle intenzioni, ha isterilito le possibilità espressive dell’Orchestra Arturo Toscanini e della compagnia di canto. Il Maurizio di Sassonia di Luciano Ganci (dopo la bella prova data in Aroldo) non riesce ad andare oltre il declamato, senza sondare le possibilità che ha la parola cantata, soprattutto nel repertorio del Novecento. Ganci, nella sua interpretazione scontata, appare fuori repertorio e, oltre agli acuti solidi, non concede sensualità e abbandono al suo cantare. Maria Teresa Leva, pur godendo di una bella voce avvolgente e omogenea, non imprime un’interpretazione completamente sviluppata del personaggio. La mancanza di un supporto registico e musicale adeguati la lasciano purtroppo completamente abbandonata al suo intuito e alla sua sensibilità, senza accompagnarla nelle pieghe più nascoste della parte. La sua Adriana vive nelle belle mezzevoci, nei pianissimi filati e in una declamazione sicura, tuttavia si dimostra fragile negli accenti drammatici. Il Michonnet di Claudio Sgura è credibile, sia dal punto di vista vocale sia interpretativo. Al netto di un registro acuto grezzo, caratterizzato da un vibrato non particolarmente piacevole, la voce è in grado di piegarsi alle esigenze espressive volute da Cilea. Teresa Romano, dopo l’aria di esordio non particolarmente centrata vocalmente, ritrova l’omogeneità dei registri, consegnando una Bouillon assolutamente in linea con la serata. Saverio Pugliese, l’Abate di Chazeuil, ha voce nasale che alla lunga appare noiosa e insignificante; inoltre non sonda un particolare tratto del personaggio, ficcante o servile che si voglia, consegnandosi all’anonimato. Il Principe di Bouillon di Adriano Gramigni, che dello stare in scena conosce solo il fisso sguardo verso il pubblico e un gesto manierato, appare macchiettistico. Assolutamente omogenea, salvo particolare nota al frizzante Poisson di Stefano Consolini, l’intera compagine dei comprimari. Corretti gli interventi del Coro. Mediocri per inventiva coreografica ed esecuzione le danze della festa. La regia, affidata a Italo Nunziata, ricolloca l’opera dal punto di vista temporale, spostandola dal 1730 ai primi anni ’50 del Novecento. Oltre a ciò, non è data particolare intuizione registica. L’impianto scenico di Emanuele Sinisi, invero scarno e semplice, non facilita le suggestioni e i meccanismi del Teatro nel Teatro di cui Adriana Lecouvreur vive. A fine recita il non nutritissimo pubblico riserva agli interpreti applausi e manifestazioni di pieno gradimento.
Luca Loglio