Everything Everywhere At All Once, che da qui in avanti chiameremo per comodità EEAAO, è un’“opera mondo delirio”. Mi verrebbe da definirla così. Un’opera mondo perché vasta, complessa, ricca di segni e rimandi, di significati. Ma è anche un delirio visivo, un susseguirsi di emozioni altalenanti, sempre in contrasto tra loro, sempre divergenti l’una da quella successiva; un’opera delirio perché attraversa i generi senza ordine apparente, saltando dove le pare, ma con autorità e sicurezza. Di fatto EEAAO è come un brodo primordiale dentro un contenitore che tenta di contenere tutto (e c’è quasi tutto) ma, infine, non ci riesce perché non vuole riuscirci; commedia e dramma esistenziale, lo spettacolo dei blockbuster e l’action delle arti marziali orientali, il film grottesco e quello ironico, il pulp alla Tarantino portato ad una estremizzazione: più generi e percorsi cinematografici sono mischiati in questo minestrone in continua ebollizione perché posto dai suoi autori, i Daniels, sopra un fuoco vivo e ardente, e costantemente mescolato, frullato, sbattuto, senza badare al fatto che in questo movimento veloce e tumultuoso possa trasbordare fuori, e dilagare. Perché è proprio quello il senso, dal caos aprire un varco all’impossibile, allo straordinario. Infatti non manca in questo mix anche il concetto di multiverso che, seppur alla base dell’idea dell’opera, non viene utilizzato solo come espediente narrativo e diegetico, ma piuttosto per porre un ragionamento sulla vita dell’essere umano, una vita costituita da molti universi: c’è l’universo familiare, l’universo lavorativo, scolastico o universitario, quello delle amicizie o quello del rapporto coniugale o d’amore con il proprio compagno o compagna; abbiamo l’universo creativo dove coltivare le proprie passioni o hobby, le ambizioni e i sogni, c’è anche l’universo in cui si è soli e in silenzio come due sassi o c’è quello sognante, in cui siamo insieme ad altri ma con wurstel al posto delle dita delle mani; c’è l’universo dei social, della realtà parallela che abitiamo, delle maschere che talvolta indossiamo per essere qualcun altro. E tutti questi universi sono pezzi di una intera vita, di un cammino preciso. Abbiamo fatto delle scelte precise che hanno spalancato le porte a questi mondi. Abbiamo scelto di amare, abbiamo scelto quel compagno di vita e quell’amore, abbiamo scelto quelle amicizie, abbiamo scelto quella università, abbiamo scelto quel lavoro. Ogni scelta ha prodotto una possibilità, una porzione di esistenza. Noi siamo una somma di universi, noi siamo un multiverso. E in questo senso penso che EEAAO faccia il discorso recente più interessante sul tema, che non si è visto in nessun film Marvel per esempio.
Il Cinema dei Daniels porta questa idea di multiverso alla sua massima espressione, verso un apice di esagerazione, un exploitation, un turbinio di assurdità e di stimoli visivi e sonori. La sceneggiatura scomposta e contorta crea un affresco mirabolante gigantesco e frammentato, è una coreografia di una danza incessante e fluida, dove c’è tutto e il contrario di tutto, che a volte fa ridere a bocca aperta, e a volte rende tristi, a volte è irrazionale e a volte, all’opposto, fin troppo ragionata e razionale, a volte goliardica e a volte tragica e melodrammatica. Lo spettatore viene invitato a lasciarsi andare al ballo, ad accettare il ritmo, a farsi trascinare come se stesse giocando: EEAAO è un gioco di esperimenti visivi e sonori, che chiedono non tanto comprensione ma accettazione. La storia ci racconta che per fare i “salta verso”, cioè per saltare da un universo all’altro del multiverso, bisogna compiere delle azioni insensate e stupide, come per esempio mangiare un burro cacao: ed è quello che ci chiede di fare il film, cioè di accettarlo talvolta come qualcosa di sconclusionato o stupido per poter saltare con lui in tante situazioni che passano rapidamente da un tono ludico ad un tono ironico, da un tono onirico ad un tono esistenziale e drammatico o filosofico. Se lo si accetta per questo, EEAAO è un film godibilissimo, soprattutto nella prima parte, quando imbastisce questo gioco-danza in modo intelligente ed efficace, con un montaggio che è qualcosa di sbalorditivo, tanto da elevarsi e non essere più un semplice significante, ma diventare un vero e proprio significato, cioè da mezzo stilistico si fa contenuto: perché è l’idea stessa di montaggio, cioè dei tanti universi che si montano insieme a comporre un mosaico di pezzi che rappresenta un’intera esistenza umana, ad essere la chiave linguistica di questa opera: è il montaggio che elabora il caos così tanto da farlo percepire, per poi ammansirlo e conferirgli un ordine (almeno apparente), cioè un senso, una forma compiuta.
Evelyn è una donna che conduce un’esistenza tra fretta e frenesia. Vive una vita schiacciata dalle scadenze e dalle preoccupazioni del lavoro, e dalle relazioni: con una figlia che cresce e cerca autonomia, ma allo stesso tempo una comprensione e un affetto che la madre sembra non darle; con un marito che vuole divorziare e con un padre autorevole che, in modo latente, impone la sua volontà e il suo pensiero. Il caos era già tutto contenuto nella sua vita, inesploso in attesa di esplodere ed esondare in modo vulcanico. Infatti il film parte da lì, e dopo salti mortali, piroette e baraonde, ritorna lì, a quell’esistenza dentro una lavanderia. È l’ordinario che esplora lo straordinario per poi tornare all’ordinario. Ed è, né più né meno, quello che chiediamo al Cinema: in quelle due ore di film, trasformare l’ordinario in straordinario, attraversarlo meravigliati e coscienti, per poi approdare di nuovo all’ordinario, ma con una consapevolezza nuova: cioè che la straordinarietà abita da sempre in noi, non dobbiamo fare altro che liberarla, anche con azioni stupide a volte. Perché nella nostra ordinarietà ci sentiamo incapaci di fare tutto, ed è proprio questa condizione che ci rende capaci di fare ogni cosa. “Sei capace in tutto perché non sei capace in niente”, d’altronde, è l’unica spiegazione che riceve Evelyn quando viene eletta ad eroina per salvare il mondo. L’eroe è colui che sa di avere dentro di sé qualcosa di straordinario, sa che c’è straordinarietà anche in una vita ordinaria.
EEAAO nella seconda e ultima parte si perde un po’, l’approccio al multiverso diventa troppo bidimensionale, troppo concettuale, di riflessione e meno di azione e movimento, in una rappresentazione anche un po’ compiaciuta e manieristica, talvolta facilona nell’affrontare il tema del legame tra madre e figlia. Figlia che, nel frattempo, si è scoperto essere il villain della storia, e che villain! Quando fa il suo ingresso in scena è un personaggio a dir poco affascinante, potentissimo, imprevedibile, pazzo e temuto. Peccato che presto perda questa aura, non appena le due donne si incontrano la prima volta, perché il film si mette a ragionare fin troppo su dinamiche relazionali ed esistenziali: accettazione e incomprensione, presenza e assenza, libertà e compromessi, insomma un po’ le solite cose tra madre e figlia. Sarebbe stato più interessante continuare a raccontarle attraverso uno scontro reale di action, di botte, di kung fu, di muscoli che si strappano e ossa che si rompono, di spostamenti d’aria e sguardi spietati tra un protagonista e il suo villain, in un respiro ampio da scontro epico tra titani, cioè qualcosa di straordinario (torniamo sempre lì) che è proprio del Cinema. Un finale che va quindi un po’ spegnendosi, affievolendosi; seppur con senso e significato, non è in linea con quello che il film aveva premesso in tutta la sua prima parte, cede un po’ troppo in anticipo ad un ritorno all’ordinario, facendo così scadere il risultato complessivo dell’opera che resta tuttavia, a mio avviso, qualcosa di sbalorditivo perché mai visto. Quindi, da vedere. Al cinema possibilmente, luogo privilegiato dove possiamo scoprire di essere singolarmente straordinari.
Simone Santi Amantini