Al Piccolo Teatro di Milano Il sogno di un uomo ridicolo

Data:

Al Piccolo Teatro Strehler dal 29 novembre al 4 dicembre 2022

Un uomo intrappolato nella camicia di forza misura a passi lenti, pesanti, a volte frenetici, impazziti, un terreno arido e polveroso, è forse quello di una cella, o di un un ospedale, o di un altro pianeta, cerca di liberarsi ma non può, di strapparsi di dosso il suo essere “un uomo ridicolo… loro dicono che sono pazzo, come un avanzamento di grado… ma pur sempre ridicolo”. Quella camicia di forza in cui racchiude il suo essere ridicolo è diventata la sua seconda pelle, da cui potrebbe liberarsi solo con un gesto estremo.

Un uomo che fin da piccolo si è sentito ridicolo, e questo suo stato se l’è portato dietro per tutta la vita, di lui ridevano tutti, ma perché?, è una sua percezione?, è l’inadeguatezza di vivere in mezzo agli altri? il non sentirsi accettato? è una malattia mentale? che lo divora e che lo spinge a meditare il suicidio, perché conseguenza di quella ridicolaggine, che lo esclude dal vivere una vita vera, è “che tutto gli sarebbe stato indifferente”. Anche la sua condizione. Come un’anestesia totale e permanente. E in questo stato di indifferenza, anche i suoi problemi diventano tali: lontani, imperturbabili, come una catalessi emotiva.

Una notte di novembre, precisamente il tre, verso le undici, tornando a casa “una sera che non poteva essere più cupa di quella… aveva smesso di piovere ed era cominciata una tremenda umidità… da ogni cosa si levava una specie di vapore…”, tra le nuvole finalmente squarciate, scorge una piccola stella. E quella stella, come la famosa lampadina che si accende nel torpore di una mente rimasta al buio, senza ispirazione e capacità di reazione, gli dà l’idea di uccidersi, perché tanto, tutto gli era diventato completamente indifferente. Lo sarebbe stata anche la sua morte. Lo sarebbe stata anche la sua morte? Ma l’idea e la conseguente decisione di mettere fine alla propria vita, strappa la morte dalla condizione di indifferenza, perché il desiderio di qualcosa, il tentativo di compiere quella cosa, presumono azione, coinvolgimento, sentimento.

E mentre sente… che deve usare quella pistola che tiene nel cassetto, una bambina, avvolta in un misero vestitino rosso (non è forse il colore dell’emozione ?), sperduta, bagnata, scossa dal freddo e dalla disperazione, gli afferra un braccio mentre dalla sua bocca esce un urlo “Mammina! Mammina!”. Forse sua madre sta morendo, da qualche parte. Lui picchia i piedi con rabbia, e allora, la bambina, spaventata, fugge verso un altro passante per chiedere aiuto.

L’uomo ridicolo, che sente la vergogna per quel gesto terribile commesso nei riguardi della piccina, corre al suo appartamento, si siede alla scrivania, sulla vecchia poltrona à la Voltaire, accende una candela e tira fuori la pistola.

Ma non spara. Ma come? Eppure dopo quel gesto mostruoso ne avrebbe avuto ben donde.

I ragionamenti affluiscono nella sua mente. “Mi appariva chiaro che se ero un uomo , e finché non mi fossi trasformato in uno zero, vivevo, e di conseguenza, potevo soffrire, andare in collera e provare vergogna per le mie azioni… Ma se mi fossi ucciso di lì a poco, che cosa me ne importava allora della bambina e della vergogna e di ogni altra cosa al mondo? Mi stavo per trasformare in uno zero, in uno zero assoluto”.

No, non spara, si addormenta e sogna. Sogna di spararsi, con un colpo al cuore, un muscolo fuori uso, e infatti non sente dolore. Inizia così il racconto fantastico che Fëdor Dostoevskij scrisse nel 1877, dopo che anni prima era stato condannato alla pena capitale per motivi politici, poi tramutata in lavori forzati, la deportazione in Siberia, e da questa lungo calvario soffrirà per tutta la vita di crisi epilettiche.

L’uomo ridicolo che racconta il suo sogno, che ci racconta il suo sogno, come se se ne volesse liberare, come se volesse la nostra assoluzione, o forse semplicemente la nostra attenzione e comprensione, è Gabriele Lavia, costretto a recitare senza usare le mani e le braccia, o in misura ridotta, perché avvolto come in sudario in una camicia di forza, e da qui tutta la sua rabbia, la sua stanchezza, la sua pazzia. Il suo vagare senza riposo sulla scena, ricordando, dimenticando, ripetendo come in un frenetico loop le sue vicende, tra ragionamenti filosofici, luciferini, razionali e incoerenti. Un animo squarciato dai pensieri, eterna fonte di male e di bene, di creazione e di distruzione. Un altro personaggio di uomo sofferente che Gabriele Lavia sa come interpretare e amare, perché, come scrive Fëdor Dostoevskij “sulla nostra terra noi possiamo amare veramente soltanto con la sofferenza e attraverso la sofferenza!”.

E l’arte e la creazione non sono forse un atto di sofferenza sublimata? Chi meglio del grande Autore può saperlo?

Poi, verso le sei della mattina, l’uomo ridicolo si sveglia dal sonno, osserva con stupore la rivoltella, la allontana da sé. “Oh adesso vivere, vivere! Sollevai le braccia e invocai la verità eterna: anzi non invocai, piansi… Vivere e predicare!”

Predicare l’amore per gli altri, come per se stessi e “tutto andrebbe a posto, nel giro di un’ora”. Eppure, questa vecchia verità, predicata da millenni, non ha mai veramente attecchito…

Daria D.

Gabriele Lavia
Il sogno di un uomo ridicolo
di Fëdor Dostoevskij
traduzione e adattamento Gabriele Lavia
regia Gabriele Lavia
con Gabriele Lavia, Lorenzo Terenzi
luci Giuseppe Filipponio, fonica Riccardo Benassi
produzione Effimera
Foto Filippo Manzini

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