Non poteva Guillermo Del Toro non confrontarsi con uno dei “mostri” più celebri della letteratura mondiale, Pinocchio: ci ha creato un’intera poetica cinematografica sulla mostruosità intesa come diversità e opportunità per i suoi personaggi e come sguardo critico sulla società e sull’arte per il suo punto di vista. Definire “mostro” il burattino più famoso del mondo è già di per sé forte e stridente se si pensa all’immaginario accumulato negli anni intorno a questo personaggio, così smussato e ripulito dai tanti adattamenti, così bello e fanciullesco; ma farlo non ci discosta in realtà da quanto pensato e scritto da Carlo Collodi: cioè la storia di un freak in un mondo di freaks, che si inseriva in un filone letterario già aperto precedentemente dal Frankenstein di Mary Shelley e seguito poi dal Dottor Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson, per citare due riferimenti più alti e celebri.
In questo senso, Pinocchio di Guillermo Del Toro fa percepire fin da subito un allineamento a Collodi e uno smarcamento netto dalle altre opere omonime che lo hanno preceduto. Basti pensare a come viene raffigurato l’atto della creazione del burattino che non avviene in un momento d’amore, di festa e canzoni nel cuore, o di gioiosa ispirazione artistica, ma in una notte di dolore devastante, con un Geppetto ubriaco accanito nel suo lavoro con la foga e la rabbia feroce di un padre dilaniato dalla morte del primo figlio: è Geppetto, di fatto, il primo vero mostro del film, che ha trasformato la sua vita in una morte apparente e un’angoscia totale. Lo stesso burattino entra in scena nella penombra di una soffitta, dove lo trova il suo creatore la mattina seguente all’atto di rabbia (non d’amore), e ha le parvenze di un insetto gigante di kafkiana memoria: il naso lungo e sproporzionato, gli arti filiformi, chiodi visibili sulle spalle, sui gomiti, sulle ginocchia, chiodi grossi sporgenti piegati dal martello; è grezzo, ruvido, respingente; ha un buco nel cuore che contiene la casa della sua coscienza, quel grillo parlante che in questa versione è uno scrittore e vuole simboleggiare l’arte. Insomma, è un lontano parente dal burattino bello, delineato, colorato e ben levigato del classico Disney, per esempio.
Ma Del Toro prende anche un’altra strada rispetto a Collodi. Nella sua storia Pinocchio non è un pupazzo di legno che deve compiere azioni buone per diventare bambino vero, ma un freak che attraverso la disobbedienza si comprende e si realizza: lui vuole essere lui, e combatte per esserlo, non vuole coincidere con il figlio morto di Geppetto, come il padre vorrebbe; non vuole essere omologato agli altri bambini della società in cui vive. È vitale, anarchico, ribelle: è un “mostro” perché dà scandalo, ma non tanto per il suo aspetto, quanto per il suo carattere forte, per la sua autonomia, per la sua autenticità e il suo coraggio di scelta.
Tuttavia queste ottime premesse vengono in parte disattese. I teoremi della poetica di Del Toro li troviamo fino alla fine: questa diversità da saper accettare e sfruttare come ribellione e affermazione di un sé, questi mostri che invadono la solitudine dell’uomo, dell’anima, quella solitudine personale così stratificata che diventa scheggia tagliente; e anche la mostruosità del male, dei pensieri malvagi, che in questo film è incarnata dal fascismo e dalle sue ideologie. Ma l’acume visivo di Del Toro si pianta poi in superficie e lì resta, a servizio dell’apparenza. Tutto molto affascinante e bello, ma è pur sempre la confezione, non si scartoccia, non si va a fondo. Questa atmosfera oscura e angosciante che è presente nella prima parte di film, poi lentamente si disperde in dinamiche fin troppo fanciullesche “da montagne russe”, sequenze dove i personaggi vengono sballottati qua e là, ma senza memorabilia, senza coreografie che possano lasciare a bocca aperta. E senza un coinvolgimento emotivo un po’ più profondo. Così anche la storia di Pinocchio finisce di incanalarsi in percorsi fin troppo noti o già visti in tantissime versioni precedenti, al punto da risultare troppo epidermici, incapaci di graffiare e intagliare, di lavorare e stravolgere la materia prima e tantomeno lo sguardo e la coscienza dello spettatore.
Simone Santi Amantini