Ugo, Gabriele e Stefano contano su Franco, come già tante volte in passato. Questa sera però è speciale, non si può proprio sbagliare. Per tutti loro, soprattutto per Gabriele e Ugo, che non se la passano certo bene, può essere l’occasione attesa da una vita, il momento della svolta.
Pupi Avati, nel suo “Regalo di Natale” (che gli valse la nomination come miglior film ai David di Donatello 1987), racconta una serata tra amici, la vigilia di Natale. Al centro della scena però non ci sono panettoni e spumante, ma un mazzo di carte da poker.
Ugo ha convinto un misterioso industriale, Antonio Santelia, di cui si dice sia molto ricco e decisamente poco avveduto al tavolo da gioco, a unirsi alla loro partita tra amici. E tutti contano su Franco, perché lo batta. Soltanto lui, che è sempre stato il vincente, al tavolo e non solo, può giocarsela davvero.
Gabriele, Ugo e Stefano, indipendentemente dalle carte che avranno in mano, non avranno il coraggio e la forza di alzare la posta fino al livello a cui l’avvocato potrebbe sfidarli. È una partita solo apparentemente ad armi pari, e anche in questo caso non si parla soltanto di poker.
Basterebbe la pienezza del racconto, la grande prova degli attori (su tutti un maestoso Carlo Dellepiane, che guadagnerà anche a seguito di tale interpretazione il Leone d’Oro) a rendere “Regalo di Natale” un capolavoro. Basterebbe la cura con cui il regista costruisce ogni scena, ogni dialogo, ogni sguardo.
Ma non c’è soltanto questo. Il film di Avati è soprattutto una storia di ricordi, e di rimpianti. Franco e Ugo erano grandi amici: questo ci annuncia una voce fuori campo, fin dai titoli di testa. Ora però, è evidente, non lo sono più. Crediamo di intuire il perché, una scena alla volta, tra una mano fortunata e un flashback, che ci riporta ai tempi in cui “Quei due ragazzi erano amici come forse tanti altri lo erano, ma loro credevano, in quel loro rapporto, di essere speciali.”
Oggi, invece? Perché tanta freddezza, tanta rabbia? Già, oggi. Vorremmo quasi dimenticarlo, il presente, mentre le note di Riz Ortolani ci portano lontano, a sorvolare vecchi rancori, meschinità, ipocrisie. Fin dai tempi di Icaro però, levarsi in cielo è tanto inebriante quanto poco avveduto.
E così può capitare, quando il piatto è ricco, e la mano è importante, che basti un momento per passare dalla parte sbagliata del racconto, mentre dal sogno ci si riscuote con un brusco risveglio. In un certo senso, si potrebbe dire che “Regalo di Natale” è il racconto di questo risveglio: non c’è spazio però, per lacrime e rabbia. Si assiste al dramma in un’atmosfera che pare leggera, potremmo dire di una tonalità quasi jazz, che rende, per contrasto, ancor più viva e pungente l’amara e preziosa lezione.