Per un’analisi contenutistica e testuale dell’Alcina di Händel, messa in scena presso il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino con la regia di Damiano Michieletto, è doveroso un primo confronto con la fonte principale del testo: l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto. Nei richiami al testo si parlerà dell’opera di Händel per intendere l’opera tutta, testo compreso, che manca di autore noto. La musica in sé, sebbene molto suggestiva, non potrà essere oggetto di considerazioni per via di una scarsissima competenza in materia da parte di chi scrive.
Rispetto alla fonte il testo presenta affinità e divergenze, che veicolano il preciso intento dell’autore dell’opera e forniscono importanti spunti di lettura.
Partendo dai punti di contatto, non è ozioso notare come la figura di Alcina si accosti saldamente a quella dell’Orlando, in cui ella ci viene presentata, nelle ottave 10 e 11 del settimo canto, con questi versi: “[…] di tutti Alcina era piú bella,/ sì come è bello il sol più d’ogni stella./ Di persona era tanto ben formata,/ quanto me’ finger san pittori industri;/ con bionda chioma lunga et annodata:/ oro non è che più risplenda e lustri.”
La chioma della maga è per Ariosto “bionda” e “annodata”: se non è rispettato da Händel il colore dei capelli, probabilmente per la scelta del nero come colore caratteristico di Alcina, resta il bagaglio semantico legato ai capelli “annodati”, nel senso di scomposti e ingarbugliati, che rimanda alla stretta correlazione tra l’indole della donna e il capello riccio di ascendenza classica; si ricordi a tal proposito Ammiano Marcellino circa la dissolutezza in cui Roma è arrivata a imperversare: “Ed è possibile vedere, ovunque tu volga gli occhi, un gran numero di donne ricciute che, se si fossero sposate, alla loro età avrebbero potuto avere almeno tre figli, lustrare i pavimenti con i piedi fino al disgusto e volteggiare rapidamente mentre eseguono numerose figure di danza create per rappresentazioni sceniche.” (Ammiano Marcellino, Storie 14.6)
Tutto il carico di dissolutezza, di astuzia e di pericolosità che Alcina porta con sé nell’Orlando resta così salvaguardato dal regista, che ne ripropone anche l’aspetto decrepito celato dalla falsa immagine che ella vuol dare di sé. Si avrà poi modo di intercettare la portata che ha questa doverosa scelta nell’economia dell’opera.
Punto di contatto è ancora la figura di Astolfo, fedelmente restituita nella sua metamorfosi in mirto a opera della maga. Rispettata l’ascendenza dantesca e virgiliana, con una scena abilmente impostata che offre allo spettatore tutto il peso del riferimento culturale: un ramo spezzato dal tronco gigante (almeno tre metri e mezzo si potrebbe azzardare) al centro della scena lascia sgorgare sangue in abbondanza, il cui flusso è interrotto da Melisso che benda la ferita con la propria camicia. Geniale altresì la strategia adottata dal regista per rendere chiara l’identità tra quel tronco e Astolfo, il quale comparirà in forma semi-umana con rami al posto delle braccia e proprio quella camicia indosso. Astolfo sarà un filo rosso che accompagnerà tutta l’opera come oggetto della ricerca di Oberto, il figlioletto sublimemente interpretato da una voce bianca: sebbene nell’Orlando non compaia la figura di Oberto, nell’Alcina la sua ricerca del padre ha un ruolo di primo piano e richiama un omaggio al personaggio di Astolfo, senza la cui liberazione non avverrebbe, nell’opera madre, alcun recupero di senno da parte di Orlando. Se con il primo atto l’aria di Oberto dà il via alla ricerca (“Chi mi rende il genitor,/ per far lieto questo cor?”), è nel secondo che si intravede la possibilità dell’incontro padre-figlio, suggerita dall’aria della settima scena: “Tra speme e timore/ mi palpita il core,/ né so ben ancora,/ s’è gioia o dolor”. Oberto non è del tutto solo nella ricerca: Bradamante interviene a consigliare il fanciullo contro gli inganni di Alcina, assurgendo anche in questo caso al suo ruolo di eroina giunta in soccorso agli ingannati: “Guarda cauto il segreto” (atto II, scena XI); ella inoltre anticipa il finale ricongiungimento con l’aria del terzo atto: “In mezzo ai martìri/ la gioia ravviso,/ e dopo i sospiri/ il riso verrà” quasi in risposta ai dubbi di Oberto combattuto tra speme e timore, gioia e dolore. A Oberto è affidata dunque l’ultima aria riferita al padre; egli, memore dei consigli di Bradamante, non si lascia più ingannare dalla maga, partecipando alla decostruzione del suo potere con queste parole cariche di livore e rivalsa: “Barbara! Io ben lo so,/ è quello lì il genitor,/ che l’empio tuo furor/ cangiato ha in fera”.
Un ultimo importante contatto con l’Orlando risiede nell’anello del disincanto, oggetto magico consegnato a Ruggiero dallo stesso personaggio, qui mascolinizzato (nel senso fisiologico esteso di “trasformato in maschio”), di Melissa.
Venendo alle notevoli differenze con l’ipotesto, è programmatico citare l’intervento diretto di Bradamante, sotto le mentite spoglie del fratello Ricciardo, che offre alla vicenda un maggior carico di pathos rispetto all’Orlando, dove la sola Melissa si presta alla liberazione, su incarico di Bradamante. Con Händel l’intervento dell’eroina promessa sposa di Ruggiero permette una notevole estensione della vicenda, che può dispiegarsi più a lungo garantendo anche alla figura di Alcina uno spazio di più ampio respiro. Melissa diviene così Melisso, aiutante maschio di Bradamante: la scelta del cambio di sesso al personaggio è probabilmente adottata per un esubero di componente femminile sulla scena, in particolare tra coloro che giungono in soccorso a Ruggiero.
Altro appunto importante è da fare sul personaggio di Morgana, sorella di Alcina, che nell’Orlando interviene solo in modo cursorio e non intrattiene alcun rapporto amoroso con Oronte. In Händel tale rapporto è propedeutico al tema dell’amore, come si avrà modo di vedere, in due direzioni.
Per passare all’analisi dei temi dell’opera, strettamente correlati alle scelte sceniche del regista, non può che essere citato per primo il tema dell’amore. Esso è declinato in molte forme: c’è l’effimero amore tra Alcina e Ruggiero, quello forte ma inizialmente occultato tra Ruggiero e Bradamante, quello ingannevole tra Morgana e Ricciardo, quello sincero tra Oronte e Morgana e quello filiale tra Astolfo e Oberto.
Escluso quest’ultimo, sulla cui portata emotiva si è avuto modo di soffermarsi, gli altri si intrecciano in uno schema a cinque di affinità (naturali, elettive o indotte), il quale fa perno sull’inganno e sulla sofferenza. Proprio da questi due aspetti si dovrà dunque partire per delineare la figura di Alcina, protagonista indiscussa dell’opera, resa nella sua componente psicologica con un apporto di empatheia e sympatheia del tutto sconosciuto all’Ariosto.
L’affinità a cinque proposta nell’opera e tutta guidata dall’inganno, non può che farci scorgere un ipotesto shakespeariano importante. Non servirà citare il Midsummer night’s dream per accorgersi che i punti in comune sono moltissimi: se lì l’inganno generato dalla rosa del pensiero faceva da volano per i sentimenti d’amore, qui l’inganno è magico e umano a un tempo; se lì la selva era un luogo oltre i limiti del reale e dell’affidabilità dei sensi, qui l’isola ha tutti i tratti del luogo dell’errare e dell’errore, reso magistralmente dal regista attraverso l’uso di specchi e vetri semiriflettenti, luci soffuse e figure che richiamano la vegetazione intricata dei boschi. Come nell’opera di Shakespeare, dunque, il tema dell’amore è strettamente legato a quello dell’inganno, ed è solo con il cedere di quest’ultimo che i rapporti tornano a essere tesi al vero amore. Da una parte della scena ciò che appare, dall’altra una sbiadita parvenza di ciò che potrebbe essere e forse è: per tutti i tre atti un pannello semiriflettente gira, si ferma, offre figure varie e confuse, cela allo sguardo dello spettatore dettagli che poi rivela, diviene oggetto con cui i personaggi interagiscono e assume il ruolo di strumento di discernimento, per chi osserva, tra le due possibili verità.
Tutti ingannano tutti, nel corso dell’opera: Alcina inganna tutti i malcapitati, Ruggiero compreso, offrendo l’apparire ameno di un luogo terribile, ma inganna anche sé stessa rifiutando il passo inarrestabile del tempo sulla sua persona; Bradamante inganna Ruggiero, Alcina e Morgana fingendosi Ricciardo, arrivando a dichiarare un falso amore per Morgana durante la quattordicesima scena del primo atto (si ricordi a tal proposito l’esclamazione di gioia di quest’ultima nel recitativo: “Me beata!”); Melisso inganna Ruggiero fingendosi Atlante per consegnare l’anello del disincanto; Oronte inganna Ruggiero comunicandogli la menzogna che Alcina è innamorata di Ricciardo.
Come si nota, l’unico a essere costantemente vittima d’inganno è Ruggiero, che già dal primo atto manifesta il suo ruolo di vittima: “Sieguo Cupido/ amo un bel volto/ né so mancar di fé”; egli crede di amare un bel volto, come crede di non saper mancare di fede: la verità è che ama un volto solcato dalle rughe e ha già mancato di fede al voto fatto a Bradamante. Egli non ha modo di credere con certezza, perché i suoi sensi sono inaffidabili; il dubbio raggiunge dunque i picchi di uno scetticismo pirroniano nel secondo atto, quando Melisso-Atlante gli consegna l’anello con queste parole del recitativo: “Questa in dito ora ti pon, verace gemma;/ e se più a me non credi,/ mira, Ruggiero, e la tua infamia vedi.” A questo punto, con l’agnizione di Bradamante, Ruggiero manifesta tutta la sua confusione: “Numi! È ver? Bradamante,/ ma Bradamante? E come? Un nuovo incanto,/ sì, che d’Alcina è questo.” Egli non può esser certo di nulla, i sensi sono inaffidabili, la ragione non è una salda consigliera. Si potrebbe dire che Ruggiero si trova in mano la bilancia di Montaigne, perfettamente in equilibrio tra credere e non credere al sensibile, che obbliga alla sospensione del giudizio; a contrario di Montaigne, però, Ruggero non può neppure far capo al senso comune, giacché deve farsi forte della sua sola, inaffidabile ragione. Tale equilibrio è dunque esaurito da Ruggiero con una commistione tra amore e ragione. La ragione, con un meccanismo che richiama il pari di Pascal, gli suggerisce di propendere per credere alla figura dell’amata, in quanto se non ci credesse e si rivelasse essere proprio lei, il danno che ne conseguirebbe sarebbe maggiore di quello che deriverebbe dal crederci errando. Tutto ciò avviene durante l’aria del secondo atto: “Pur chi sa? Temer conviene,/ che m’inganni amando ancor./ Ma se quella fosse mai/ che adorai, e l’abbandono,/ infedele, ingrato io sono,/ son crudele e traditor”.
Una ricerca interiore non da poco, insomma, per condurre sé stesso fuori dall’inganno con una qualche convinzione. Ricerca che, a questo punto, consente a Ruggiero di battere Alcina sul suo stesso campo: è con l’inganno all’ingannatrice che la solida struttura della regina comincia a crollare. Egli, nell’aria del secondo atto, dichiara il suo amore fingendo di indirizzarlo alla maga: “Mio bel tesoro,/ fedel son io,/ al ben che adoro,/ all’idol mio,/ prometto fe’/ (ma non a te!)” Ella gli crede e così comincia a perdere i suoi poteri, contestualmente alla possibilità di ricevere udienza dai Numi. È il momento in cui cominciano a cambiare i ruoli di vittima e carceriere; il cambiamento è reso sulla scena perfino dalla porta dell’antro della maga, costituita da uno specchio ovale, che comincia ad aprirsi dal verso opposto rispetto all’inizio (un dettaglio che necessiterebbe una seconda visione per essere confermato, in quanto si potrebbe rivelare un semplice effetto ottico teso all’inganno dello spettatore stesso): se prima le figure entravano e uscivano da sinistra, ora lo fanno da destra.
Come si è anticipato, la figura di Morgana non entra nella trama col solo scopo di partecipare allo schema delle affinità: ella è anche sorella di Alcina, ad ella legata da un rapporto molto stretto che ha alti e bassi durante l’opera, ma che si manifesta in tutta la sua intensità durante l’abbraccio finale alla sorella che giace defunta sulla scena. Impossibile non trovare in tutto questo un richiamo esplicito all’Anna virgiliana, sorella di Didone: richiamo che permette di giustificare ancor più la presenza massiccia di Morgana nella vicenda, assai più ridotta nell’Orlando.
Difatti Alcina ha molti tratti della Didone virgiliana, con cui condivide il fuoco dell’amore e il trauma dell’abbandono. Non da poco è l’intervento in scena della spada in mano ad Alcina in punto di morte: contrariamente alle eroine suicide dell’epica, Didone si uccide con una modalità generalmente riservata agli uomini, trafiggendosi il petto con la spada, sulla cima del rogo fatale.
L’aria di Alcina del primo atto pone già in evidenza il parallelismo: “Sospirando al sospir mio,/ mi dicesti con un sguardo:/ peno ed ardo al par di te.” Dove i versi 2 e 23 del quarto libro dell’Eneide richiamano proprio l’ardere dell’amore: “e un cieco fuoco la divora.” e il celebre “Riconosco i segni dell’antica fiamma.”
Alcina ama Ruggiero come Didone amava Enea, con la differenza che quest’ultima non si serve di inganni per farsi amare. Le due figure continuano a farsi compagnia anche nell’abbandono, dove per entrambe una forte volontà di vendetta si confonde con un amore che non è disposto alla rinuncia.
“Ah Ruggiero crudel, tu non m’amasti!/ Ah! Che fingesti ancor, e m’ingannasti!/ E pur ti adora ancor mio fido core./ Ah! Ruggiero crudel! Sei traditore!” Così Alcina durante il recitativo del secondo atto, dove Didone: “Speravi, o perfido, di poter dissimulare una tale/ infamia, e di allontanarti senza parole dalla mia terra?”
Entrambe tentano poi di far ragionare l’amato, nella speranza di cambiarne gli intenti: “Non pensi, mio caro, al mio dolore. / Ah, che sei mentitore!/ Fuggi da me per darti a un’altra donna.” Recita Alcina nel terzo atto, mentre Didone: “Non ti trattiene il nostro amore e la mano che un giorno/ mi desti, e Didone ostinata a morire amaramente?” (libro IV, vv. 307 e 308) e ancora ai versi 314 e seguenti: “Ti prego per queste lagrime/ […] abbi pietà della casa che crolla, e abbandona,/ se ancora valgono le preghiere, questo pensiero.” Allo stesso tempo l’amato, in entrambi i casi, è riluttante a cambiare proposito, portando a giustificazione della partenza il tema della gloria e del fato.
Come Didone, anche Alcina si presta così a quel dibattito che ha visto scontrarsi i più grandi latinisti e studiosi contemporanei: quanto di Medea e quanto di Arianna c’è nel personaggio di Didone? Ella è disposta all’omicidio o le sue ingiurie e minacce son rivolte alle onde? Qui Alessandro Schiesaro e Gian Biagio Conte avrebbero di che disquisire. Ci si limiti a notare che Alcina è molto più simile a Medea di quanto Didone potrà mai essere, sebbene il regista offra uno spunto atto ad allontanarla da un’identificazione assoluta: Medea diviene crudele per amore, arrivando a uccidere il fratello, mentre Alcina è rappresentata come crudele dalla nascita. Nel corso dell’opera, infatti, più volte compare sulla scena la figuretta di una bambina che trascina una scure, che ha tutte le caratteristiche di Alcina. Proprio quella figuretta consegnerà all’Alcina adulta la scure sul finire dell’opera: qui la chiave. Alcina minaccia di usare quella scure, ma alla fine la conficca a terra; il desiderio di uccidere è vinto dall’amore che prova per Ruggiero, lasciando che l’indole della maga si scosti da quella del personaggio di Euripide e Seneca prima di abbandonare per sempre la scena. Didone ama e odia, forse vorrebbe anche pianificare l’uccisione dell’amato in partenza (Schiesaro a questo proposito offre spunti molto interessanti, tra cui basti citare tempus inane peto, ossia il verso con cui Didone chiede, tramite Anna, a Enea di attendere prima di partire: magari per pianificarne l’omicidio?), ma alla fine non conclude nulla, l’amore vince sull’odio; Medea ama e odia, pur di non vedere l’amato allontanarsi è disposta ad uccidere, in lei l’odio è più forte dell’amore; Alcina ama e odia, la tentazione di usare i poteri è forte, ma una volta accortasi di averli persi non è in grado di uccidere con la scure: in Alcina, sul finire della sua vita, vince l’amore.
In tutto questo il ruolo di Morgana non è certo quello di sorella confidente al pari di Anna; ella rifugge anzi un’abbraccio di Alcina nel momento del bisogno: sta soffrendo ella stessa, ella stessa è vittima di trame amorose cui deve far fronte. Il ruolo di confidente è, per certi versi, assunto da Oronte: è lui ad avvertire Alcina dell’inganno e della pianificata fuga, così come è lui a condividere con la maga gli ultimi momenti di disperazione, quando ella capisce di non aver più nessun potere (magico o reale che sia).
L’ultima considerazione per definire la figura di Alcina è doverosamente dedicata alla caducità delle cose terrene. Alcina inganna sé stessa fingendosi giovane e rifiutando quella sagoma di donna anziana che più volte compare dall’altra parte del vetro. Alcina non può sopportare la sua impotenza di fronte al progredire degli anni, così preferisce ingannarsi e ingannare, raccontarsi la sua verità. Sta qui il tratto più umano del personaggio, che è reso sublimemente dal regista tramite giochi di sguardi e di movimenti che coinvolgono la maga e la sua proiezione anziana e cadente. Fin dall’inizio questa figuretta esile dai capelli bianchi si trascina per la scena, scrutando ciò che avviene dall’altra parte del vetro, anelando di essere considerata, di essere riconsiderata e accettata. Pare chiamare a sé la maga, pare implorarla di avvicinarsi. Più volte si osservano le due compiere gesti speculari da parti opposte del vetro separatore. Ma solo sul finire dell’opera le due arrivano a toccarsi, a ricongiungersi, poco prima che tutto per Alcina finisca tra un passato rifiutato e un presente finalmente accettato.
Iacopo Mancini