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BABYLON, UN FILM-ELEFANTE MESSO IN GABBIA

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C’è un elefante che a inizio film viene trascinato con molta fatica all’interno di un camioncino destinato al trasporto di cavalli, su una ripida salita, perché è l’attrazione bizzarra di una festa “hollywoodiana” in un’imponente villa sopra una collina di Los Angeles. Ad un certo punto l’elefante espelle la sua strabordante quantità di feci addosso ad uno degli uomini che stava aiutando a spingere il mezzo per riuscire a farlo arrancare. Lo spettatore quindi viene condotto con lunghi piani sequenza all’interno di questa festa di coreografie pazze, eccessi in ogni angolo, caos e disordine imperanti, che per alcuni tocchi ricorda i barocchismi visivi e sonori di Baz Luhrmann: la macchina da presa di Damien Chazelle non si ferma, cammina, corre, si arresta e si volta, frastornata e incapace (volutamente) di definire quello spazio sovrabbondante, allora segue quel personaggio e poi un altro, inquadra sesso, cocaina e alcol. Siamo in scena, ma in scena c’è la realtà debordante di Hollywood gettata addosso allo spettatore come quella cacata improvvisa nella prima sequenza di film. Ne veniamo invasi e travolti. E aspettiamo l’elefante, ci chiediamo che fine abbia fatto. Poi eccolo, accede alla festa con barriti e possenza, tra urla e stupore generali. È un diversivo, come lo è Babylon nel cinema contemporaneo, che rimodella la storia del Cinema a suon di eccessi sensoriali.

Babylon è un film con un elefante piazzato lì, che non se ne va. È presenza ingombrante, in senso negativo; è assenza attesa e ricercata, in senso positivo. Siamo a Hollywood, anni ’20: al party scatenato di cui sopra si incontrano Nellie, bellissima, sensuale e impulsiva, e Manny, un giovane messicano che lavora per la casa di produzione Keystone, più pacato, un giovane che cerca di frenarne l’esuberanza. L’elefante è lì, a ricordare la magniloquenza di un film smisurato, scorretto e libero nella sua forma e nel linguaggio, in continua ebollizione: dalla sproporzione in termini, divertente e volgare, si passa al lirismo più puro di un primo piano al tramonto, in perfetta simmetria di sguardi, luci e silenzi; dal Cinema muto, sinonimo di arte e pantomima di sentimenti ed emozioni, al sonoro che porta nel set codici, convenzioni, se non anche morte, in un controllo ingovernabile e stressante, e conseguente trasformazione della performance attoriale in tecnica d’esecuzione, sacrificandone sempre più la passione e il cuore. Ma è fin troppo schematico Babylon, e la sua feroce libertà viene messa in gabbia, si sbatte e si dimena, ma i metri quadri sono pochi e le sbarre indistruttibili: si sente stretta e soffocata da una struttura narrativa troppo schematica e ridondante, troppo schiacciante e inadeguata per l’elefante che è. Le sequenze d’azione (che qua viene confusa spesso con concitazione e frenesia smodata) si alternano a momenti di stasi, e così a ripetizione, caos e calma, caos e calma. Ma il caos è abitato da persone che lottano con serpenti, che vomitano, che urlano frasi inverosimili, in un’ironia smargiassata, che diventa parodia, che ti fa perdere il contatto con la materia narrata, che crea repulsione, perché grottesca e macchiettistica. È slegato Babylon, anche nelle sue derive concettuali e intellettuali fin troppo elementari e banali: il discorso che Chazelle fa sul Cinema è fintamente ambizioso, così terra terra da rimanere invischiato nella polvere e nello sporco, nella volgarità spicciola, che culmina in quel finale sgraziato e di retorica così pura, da essere imbarazzante. Così quell’elefante ingombrante coincide anche, di fatto, con l’ego dell’autore. Chazelle diventa autoreferenziale come non lo era mai stato, se non in alcuni tratti in La La Land. Lo sguardo dello spettatore impatta sulla superficie di uno specchio dove vede il regista autocompiacersi dei suoi movimenti di macchina e delle sue inquadrature, invece che se stesso, o il mondo, o l’Arte, o un ricordo.

Ma l’elefante è, per fortuna, anche un’assenza. Nell’arco di tutte le tre ore di Babylon continui a chiederti quando arriverà, come spettacolo, come sublime romantico, come elemento sì selvaggio e pericoloso, ma anche misterioso e perciò attrattivo. È l’attesa dei grandi e alti momenti di Cinema, che Chazelle piazza qua e là, e fanno crescere il rimpianto: nelle lacrime reali che scendono perché richieste dalla finzione, vicino ad un volto, dietro una porta socchiusa, dentro un corpo che si muove o si contorce, accanto ad occhi lucidi per la meraviglia, nei meandri infernali di Hollywood e del mondo dai quali si esce sporchi e disperati, e nelle parole d’amore sul Cinema, sul suo potere di salvezza, sul suo essere un’arte nobilissima. Ma l’assenza dell’elefante non basta a spingere ai margini di questo progetto babilonico la sua presenza mastodontica, segnando un deciso passo indietro nel discorso artistico di Damien Chazelle.

Simone Santi Amantini

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