Joumana El Zein Khoury. “La mia fotografia senza confini”

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Joumana El Zein Khoury è Direttrice esecutiva della World Press Photo Foundation, il più grande e prestigioso concorso di fotogiornalismo mondiale. Di origine libanese, da oltre 15 anni è impegnata nel promuovere, a livello internazionale, scambi culturali e programmi per la promozione di nuovi talenti.

In questa lunga intervista esclusiva spiega come sta cambiando il World Press Photo, nell’ottica di aprire sempre di più al mondo il Premio e riflette sui cambiamenti che stanno attraversando la fotografia, dal ritorno, in particolare tra le nuove generazioni, dell’analogico, fino alle nuove immagini generate dall’intelligenza artificiale.

Fotografia che rimane “uno strumento potentissimo”, ancora in grado di cambiare il mondo. “Le immagini arrivano direttamente alla pancia – spiega – e trovo questo una cosa positiva perché scuotono le coscienze e sanno spingere gli uomini all’azione. ll fatto però che sia sempre più presente nel dibattito odierno il tema dell’etica dell’immagine e che sempre più persone sentano l’urgenza di parlarne è indubbiamente un passo nella giusta direzione”.
Quante fotografie vede ogni anno la Direttrice del World Press Photo?

Quante foto vedo all’anno? È una bella domanda. Direi tante, tantissime. Se penso all’ultima edizione del World Press Photo, abbiamo ricevuto circa 70mila scatti per il concorso e a conti fatti credo di averne visionate un terzo. Un bel po’ insomma. Ma è una cosa che mi piace molto: trovo davvero speciale ritrovarsi in unico luogo e allo stesso tempo aver accesso a tutte queste storie, questi racconti, poter apprezzare diversi livelli di fotografia, riuscire a cogliere angolazioni che arrivano letteralmente da tutto il mondo. Come dicevo è un momento unico, per questo mi prendo tutto il tempo per guardare le foto e assimilarle.

Lei si è laureata in legge a Parigi, come è arrivata al mondo della fotografia? Quando è nato il suo amore per questo ambito?

Quando avevo 12/13 anni pensavo: da grande farò l’avvocato. Era il mio sogno. Il problema è che quando poi ho iniziato a esercitare la professione, ho capito rapidamente che non volevo più essere un avvocato. A quel punto mi sono chiesta: è ora cosa potrò mai fare della mia mia vita? Per cercare una risposta ho pensato di svolgere un test della personalità. Ed ho ottenuto in effetti una risposta: è emerso che sono molto portata a gestire, organizzare, dirigere e che ho una grande passione per l’arte e la cultura. Così ho ricominciato da capo, scegliendo di formarmi per imparare a gestire organizzazioni culturali. Ancora oggi ricordo bene quel pomeriggio: afferrai il telefono e chiamai mio padre dicendogli: “ho trovato la mia vocazione”, perché avrei voluto essere un fotografo, un artista, ma senza possedere il talento adeguato.

Così prima ho conseguito un bachelor in comunicazione delle arti e poi ho frequentato un master negli Stati Uniti in Amministrazione dell’arte. E mi sono chiesta: che cosa posso fare? L’idea era di lavorare con organizzazioni culturali attive a livello locale nel mondo arabo. Ho cominciato con l’Arab Image Foundation, un ente che ha una storia incredibile, nato su iniziativa di 5 fotografi molto noti, per creare un grande archivio di foto che documentassero il mondo arabo e la sua evoluzione. Un racconto che fino ad allora era basato solo sulla fotografia coloniale, di matrice occidentale. Hanno così iniziato a raccogliere materiale, visitando per esempio famiglie e rivolgendosi a numerosi studi fotografici. L’obiettivo finale era quello di costruire una forma di narrazione diversa. È stata un’esperienza fondamentale, che ha innescato il mio amore per la fotografia e che mi ha dato modo di comprendere il suo potere, la forza intrinseca delle immagini, e il fatto che dietro ogni scatto c’è sempre una storia e qualcuno che la racconta.

Cosa significa essere direttore del World Press Photo e che tipo di responsabilità sente rispetto a questo ruolo?

Quando sono entrata nel World Press Photo, come ho detto molte volte, ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a un’organizzazione che stesse sì lavorando bene, ma che tuttavia mi pareva rispondere sempre più a un pubblico ristretto, anzi più precisamente a un gruppo limitato di fotografi. E ho pensato che se vogliamo davvero essere, di nome e di fatto il World Press Photo, dobbiamo guardare effettivamente al mondo, ovvero essere global a tutti gli effetti. Per questo ho avvertito la necessità di cambiare alcuni aspetti della manifestazione. Prima di intervenire ho chiesto a oltre 600 persone di darmi le loro impressioni, domandando loro quali ritenessero fossero gli aspetti positivi e quelli negativi, e facendo tesoro dei loro consigli e suggerimenti. Ritengo che essere aperti, capire cosa occorre correggere, rientri appieno nel Dna di un direttore di un grande concorso fotografico globale.

Nel caso del World Press Photo quello che ho tratto da questo processo è che eravamo sì ancora rilevanti, ma che occorreva necessariamente apportare dei correttivi. Abbiamo cambiato radicalmente il nostro approccio alle diverse regioni del mondo, per lavorare prima di tutto con un maggior numero e varietà di fotografi: così ora abbiamo naturalmente fotografi di agenzia, ma anche persone che lavorano direttamente sul campo, spesso noleggiando l’attrezzatura. E ancora fotografi che sono in fuga, costretti a lasciare il loro Paese, perché la loro vità è in pericolo. Più aperti ai fotografi delle varie regioni del mondo da un lato e dall’altro, altrettanto aperti, a un maggior numero di pubblici. Non c’è solo quello occidentale, come per esempio quello italiano, al quale abbiamo spiegato perché non vogliamo più avere un eccessivo numero di scatti legati alla natura e allo sport, cercando di far cambiare loro idea. Allo stesso tempo dobbiamo confrontarci con persone del sud-est asiatico, che in genere non hanno accesso a questo tipo di immagini e spiegare loro come leggerle e interpretarle.

Devo dire che il fatto di non essere un fotografo, di non provenire dal mondo della fotografia, mi ha avvantaggiato, perché mi ha dato modo di mettere in discussione aspetti che i miei colleghi, che hanno partecipato a questo processo per molto tempo, non erano in grado di fare. E anche il fatto di provenire da una regione – il Libano – di cui non si parla mai nel modo giusto, mi ha permesso di affrontare e parlare dei temi in modo diverso.

Paris Photo, Les Rencontres de la photographie d’Arles sono grandi appuntamenti dove sembra esista un sostanziale allineamento nei temi proposti al pubblico: diritti civili, cambiamento climatico, razzismo, post colonialismo e riflessioni sul corpo. Dal suo osservatorio privilegiato lei ha notato la stessa tendenza?

Per certi aspetti la colgo con ancora maggior evidenza, avendo ora la possibilità di ricevere immagini da tutte le regioni del mondo. E quello che vediamo è che nelle foto troviamo i cambiamenti climatici, le proteste civili, il razzismo, le migrazioni, la decolonizzazione, raccontati secondo diversi aspetti. Ci sono quindi questi temi comuni, ma è diverso il modo e la sensibilità con cui le persone rispondono a queste immagini e anche come i fotografi catturano queste storie nelle diverse aree del pianeta.

È davvero qualcosa di emozionante da vedere ed è per questo che negli ultimi anni stiamo creando mostre legate a un singolo tema, attingendo al nostro grande archivio fotografico che esiste dal 1955. Per esempio abbiamo allestito mostre sulle proteste popolari, sui movimenti civili, e ancora sull’immigrazione. Abbiamo anche organizzato una mostra dedicata alla resilienza delle donne. Hanno tutte avuto un grande successo, ma quello che è davvero rilevante è come questi temi siano stati rappresentati nel corso degli anni e come i fotografi si sono relazionati con questo tipo di storie. Possiamo cogliere quello che mi sento di definire un diverso respiro etico, rispetto alle immagini scattate 20, 30 o 40 anni fa. Se penso alla mostra dedicata alle donne e allo loro storie, non posso fare a meno di notare che nulla era mai apparso sui media al riguardo, se non a partire dagli anni 2007-2010.

Ci sono secondo lei temi oggi che la fotografia ancora non racconta o per i quali c’è ancora poca sensibilità?

Quello che vedo è un venir meno dei confini. Mi spiego: storicamente esistono tre diversi tipi di fotografi. Il fotoreporter, il fotografo documentarista e il fotografo artista. Ora, in particolare con le generazioni più giovani, queste categorie stanno venendo meno. Con le minacce crescenti alla libertà di stampa ed espressione, questa nuova generazione di fotografi è chiamata a muoversi in un modo più intelligente, più furbo se volete. Per esempio, pur non essendo una fotografa giovanissima, Newsha Tavakolian è un esempio perfetto di questa tendenza: lavora a livello giornalistico in Iran e con il New York Times, ma è allo stesso tempo una fotografa documentarista quando affronta questioni più complesse e difficili. Un altro elemento che noto è che le storie risultano essere più individuali, personali. Le fotografie recano una narrazione più intima, esiste un maggior rapporto con il contesto e le persone. Molto diverso da un fotografo che arriva in un luogo, scatta e poi riparte.

Ad Arles, ma anche altrove, abbiamo assistito al ritorno della fotografia analogica, praticata soprattutto dai giovani fotografi. Secondo la sua esperienza, si tratta solo di una moda passeggera e la fotografia è in fondo destinata a diventare digitale?

Non saprei dire se ci troviamo effettivamente di fronte a una tendenza. Mi viene in mente un paragone con la moda: oggi vediamo tanti ragazzi vestire capi di abbigliamento degli anni 2000 o ancora degli anni ‘90. Nella fotografia probabilmente sta avvenendo qualcosa di simile. In fotografia oggi parliamo tantissimo di IA, fotoritocco, filtri digitali etc. E allora penso che soprattutto i fotografi più giovani, avvertano il bisogno di tornare alle origini e di “giocare” con questa fotografia delle origini in modo diverso. Con l’analogico si possono sperimentare tecniche e modalità che non è possibile effettuare allo stesso modo con il digitale. E poi credo anche che le nuove generazioni avvertano questa necessità tattile di tornare a toccare le cose, di giocarci. E l’analogico offre loro questa possibilità. Non so se sarà un fenomeno duraturo, ma anche al World Press Photo riceviamo molte foto in formato raw analogico.

Sulla stampa italiana sono tornate a fare notizia le proteste in Iran: che ruolo sta assumendo la fotografia nel raccontare i grandi cambiamenti che stanno attraversando le società mediorientali?

Non solo attraverso la fotografia, ma con la cultura in generale: musica, danza, arte. E cogliamo la forza di queste proteste anche solo ascoltando i discorsi, gli interventi che accompagnano le proteste nella regione, pur in uno scenario di censura fortissima e con molte persone che vengono arrestate e rinchiuse in carcere. Parlando dell’Iran in particolare, uno dei fotografi vincitori di quest’anno, Ahmad Halabisaz, con la foto della ragazza seduta davanti alla moschea senza hijab, era in prigione quando abbiamo valutato la sua immagine. Gli abbiamo chiesto, tramite sua sorella, se fosse sicuro di voler mantenere la foto nel concorso. E lui era sicuro. E poi gli abbiamo chiesto: “Vuoi davvero mantenere il tuo nome?”. Ci ha risposto di sì. E lo stesso vale per la ragazza. Le abbiamo detto: ‘Sai, questa immagine sarà vista da milioni di persone. Ti va bene che ci sia il tuo volto? E lei ha risposto: “È per questo che lo sto facendo”.

Parliamo ora di intelligenza artificiale. In Italia, il giornalista Michele Smargiassi, ha definito le immagini dell’IA come sintografie, cioè immagini sintetiche. Come vi state avvicinando a questo tema? E rispetto a queste foto “inventate” dall’IA, dobbiamo allora chiederci se la fotografia mente?

“La fotografia è oggettiva. Quello che vedi è reale”. Ecco, dissento fortemente da affermazioni come questa – che comunque continuo a sentire – perché le fotografie sono scattate dall’occhio di qualcuno che porterà sempre nel suo sguardo il suo vissuto, i suoi pregiudizi e la sua idea personale di un contesto. Dietro uno scatto insomma c’è un testimone con tutto il suo bagaglio e credo che questa sia una riflessione importante da cui partire. Venendo all’IA, penso sia molto importante oggi ragionare su un’etica dell’immagine e su regole condivise per il suo uso. Con Magnum e National Geographic abbiamo ad esempio creato un tavolo di lavoro condiviso per finalizzare una sorta di manifesto che stabilisca le regole per identificare foto generate dall’IA o meno.

Forse sarò ingenua, ma non credo proprio che l’IA prenderà mai il sopravvento. Ritengo che continuerà sempre a prevalere il valore della testimonianza e della coscienza individuale, inesistenti nel concetto stesso di IA. Siamo di fronte a un passaggio che la fotografia deve affrontare, proprio come quello dell’analogico al digitale, o dal bianco/nero al colore. Un’evoluzione insomma, nella quale il ruolo del fotografo uscirà rafforzato, in quanto unico e reale testimone soggettivo della realtà. Questo penso gli conferirà uno status e una autorevolezza che oggi ancora non gli vengono ancora del tutto riconosciuti.

In una recente intervista lei ha ricordato come l’istantanea di George Floyd abbia avuto un enorme impatto sulla nostra società. C’è un limite su cui dobbiamo riflettere affinché l’impatto emotivo non ci distragga dal fare ragionamenti più complessi? In altri termini, di fronte al potere delle immagini, come possiamo evitare di fermarci all’indignazione e alla naturale reazione emotiva per costruire un ragionamento più articolato?

In un mondo invaso dalle immagini non abbiamo in realtà alcuna educazione su come leggerle e questo è un grosso problema. Ho tre figli e loro divorano tutto attraverso le immagini. TikTok è ormai il loro mezzo di comunicazione, ma sono assolutamente privi di strumenti per leggerle, per capirle e assimilarle. A scuola si studia letteratura, dove i testi si analizzano, mentre è totalmente assente un simile approccio alla fotografia. L’alfabetizzazione visiva è un tema sul quale stiamo cercando di lavorare perché quando accediamo al grande pubblico, penso che debba esistere una responsabilità proprio in questi termini per aiutare le persone a consumare le immagini.

Mariupol Maternity Hospital Airstrike, Evgeniy Maloletka, Associated Press
Questo se vogliamo è un primo aspetto. C’è anche una seconda valutazione: le immagini arrivano direttamente alla pancia, e trovo questo una cosa positiva perché scuotono le coscienze e sanno spingere gli uomini all’azione, come è stato per l’immagine di Mariupol (lo scatto del fotografo dell’Associated Press Evgeniy Maloletka con i soccorritori che trasportano una donna incinta attraverso le rovina fuori dall’ospedale ndr) che ha vinto Foto dell’Anno a World Press Photo. E’ lì a baluardo della nostra memoria, ma grazie alla sua potenza emotiva ha innescato una presa di coscienza, che ha contribuito ad andare oltre, creando un corridoio umanitario. Le fotografie però possono suscitare anche odio come quelle dei bambini africani poveri che muoiono di fame o quelli che lavorano nelle miniere. Una narrativa che ci indigna ma che è anche quella stereotipica con la quale siamo un po’ tutti cresciuti e che ora ha bisogno di essere destrutturata.

Quindi in conclusione direi che sì, la fotografia è uno strumento potentissimo ma al quale le persone, a partire dai bambini, vanno educate. Non so in totale onestà se esiste un limite da considerare affinché l’impatto emotivo della fotografia non ci assorba totalmente. Il fatto però che sia sempre più presente nel dibattito odierno il tema dell’etica dell’immagine e che sempre più persone sentano l’urgenza di parlarne è indubbiamente un passo nella giusta direzione.

Un ringraziamento speciale alla Direttrice Joumana El Zein Khoury, Charlotte Zajicek e tutto lo staff per aver messo gentilmente a disposizione le foto del World Press Photo.

Antonella Maia – Raffaele Castagno

Intervista realizzata per la newsletter mensile di Mirandola Comunicazione dedicata completamente alla fotografia: Binario 9 3/4 Fuorifuoco.
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